Alla base di tutto c’è la difficoltà a
inserirsi in un mercato del lavoro “chiuso”. Diversamente si potrebbe invertire
la tendenza a preferire città extraregionali per realizzarsi professionalmente
e pensare a un futuro più roseo grazie al quale costruire la propria famiglia. Secondo
l’Istat nel 2015 i giovani (compresi tra i 25 e i 35 anni) che lasceranno la
regione saranno 15.500 a fronte di una popolazione che è scesa a 576 mila
abitanti. Eppure La Basilicata possiede delle risorse naturali di tale
importanza da poter diventare una San Marino del Sud. A primo acchito il
ragionamento “trasuda” di demagogia, ma in fondo è ciò che pensa molta gente visti
i dati sui settori trainanti dell’economia lucana: royalties dell’oro “nero”
ridotti all’osso, quando in altri Paesi l’Eni lascia l’oltre il 40 per cento
del ricavato dell’estrazione petrolifera, siamo ricchi di acqua (che non va
negata a nessuno) ma che non porta entrate di rilievo, turismo in crescita
anche se l’offerta ricettiva è ancora ai primordi, risorse storiche, culturali
e ambientali. Infine abbiamo il comparto agricolo che fa da traino all’economia
lucana. Quando nacque la Fiat di San Nicola si fecero i primi calcoli di spesa
per la costruzione della fabbrica: un miliardo di lire per ogni operaio.
Nasceva in Basilicata il primo paradosso: istituire l’industria in pieno post
industrialismo, quando in regione il settore più importante per l’export è
l’agricoltura. Un’organizzazione agricola propose di offrire a ogni azienda
agricola 250.000 milioni di vecchie lire per potenziare la produzione e
introdurre nuove colture, favorendo anche maggiore occupazione. Ma le centrali
del potere, siano esse di destra o di sinistra (quest’ultima rea di aver
dimenticato le vecchie ideologie che ne faceva un partito attento ai problemi
dei lavoratori, dei disoccupati e delle questioni sociali), hanno preferito
foraggiare la Fiat tanto che oggi potremmo coniare un nuovo dettame
costituzionale: l’Italia è una Reppublica fondata non più sul lavoro ma sulle
decisioni di Marchionne. E così la comunità è costretta a sobbarcarsi i costi
della cassa integrazione, mentre molti stabilimenti della casa torinese
chiudono per essere trasferiti in Polonia o in altri Paesi. La Fiat sta
diventando come la Microsoft, la Intel, la Nike, la Shell (che ha sfruttato il
delta del Niger sotto la protezione dell’esercito lasciando gli Ogoni in uno
stato perenne di povertà e di inquinamento), la Mattel, il Mc Donald, etc. :
spostare la produzione in altre zone del pianeta, quelle più povere, dove per
anni non si paga l’imposta sul reddito e sulla proprietà e i lavoratori sono
costretti a turni che vanno dalle 12 alle 16 ore al giorno, il tutto per
qualche dollaro che basta per pagarsi un letto quando c’è, una piatto di
spaghetti fritti e qualche spostamento (in Indonesia i porcili sono stati
trasformati in dormitori e i posti letto sono demarcarti da una linea bianca).
In Pakistan un bambino che cuce un pallone Nike prende 6 centesimi all’ora. Nel
settore tessile un operaio cinese prende 67 centesimi di dollaro all’ora a
fronte dei 12 o 16 dollari pagati rispettivamente in America o in Germania, che
nel frattempo hanno chiuso i propri stabilimenti. Le grandi aziende non puntano
sulle fabbriche, sui macchinari che si usurano, sugli operai che invechiano e
che devono sostenere le famiglie ma sul marchio che è diventato cool (alla
moda) a prescindere da dove viene prodotto. Le “zone franche” nel mondo sono
circa 870 e riguardano 70 milioni di lavoratori sottopagati e ridotti alla
miseria e dove è vietata la sindacalizzazione, pena il licenziamento o altre
forme di ritorsione. Tranne alcuni movimenti che si muovo contro lo
sfruttamento, l’occidente, opulento e impaludato nelle secche
dell’etnocentrismo, continua a essere sordo alla povertà in aumento nel pianeta,
e non solo, e preferisce macerare le produzioni agricole in eccesso per non far
scendere il prezzo di mercato dei beni alimentari.
Intanto, in regione si registra un tasso di
disoccupazione superiore al 30 per cento tra giovani e ultra quarantacinquenni
che, nonostante i titoli o le capacità operative, non trovano lavoro a meno che
non hanno “un calcio” dal potere politico sempre più lottizzato e propenso ai
favoritismi.
(Pasquale P.)
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