La Basilicata viene vista, oramai, sempre più come un territorio da sfruttare, prosciugare, trivellare, fino all’ultima goccia di idrocarburi disponibile. Il tutto senza rispetto per l’ambiente circostante né tantomeno per gli sfortunati abitanti dei comuni in cui le multinazionali estraggono.
Il colpo di grazia lo ha dato anche l’ex premier Romano Prodi, in una recente (ed inquietante) dichiarazione rilasciata durante un’intervista al Messaggero, in cui proponeva di avviare un enorme programma di sfruttamento intensivo delle (reali o presunte) riserve di gas e di petrolio italiane. Precisamente, la proposta era che l'Italia si unisse al programma di ricerca del petrolio in Adriatico avviato di recente dalla Croazia: “Se non ci uniamo alle trivellazioni, finiremo per avere gli svantaggi del progetto croato”, afferma il professore, ovvero ci ritroveremmo ad avere i pozzi di fronte alle nostre coste senza averne i benefici, cioè la supposta ricchezza che quei barili di greggio dovrebbero creare. Ma quali sono le mire delle multinazionali nel Belpaese? I mari della Sardegna, le montagne e le valli della Basilicata (Val d’Agri e dintorni), la Valle dei Templi di Agrigento, lo Ionio (proprio a ridosso delle coste ci sarebbero “interessanti sacche di idrocarburi”) e le vaste e fertili pianure dell'Emilia. E poi l'Adriatico, da Venezia sin giù alle coste della Puglia.
Queste zone, tra le più belle d'Italia, farebbero alle multinazionali dell'energia perché sarebbero tutte “ricche di gas e petrolio da estrarre”.
Ma chi trarrebbe ricchezza da tutta questa attività estrattiva? Davvero il nostro Paese potrebbe risollevarsi dalla crisi grazie ad una intensa attività estrattiva, come diceva il professore?
Di certo in Basilicata non è stato così! E i numeri parlano chiaro.
Nonostante il petrolio, la Basilicata è la regione più povera d'Italia: dati Istat 2010. Ed ha una percentuale di morti per tumore più alta della media nazionale: dati dell'Associazione Italiana Registro Tumori!
Ma vi è di più: il tasso di disoccupazione è costantemente in crescita, secondo i dati Cgil: “Nella sola Val d'Agri (dove è più intensa l'attività dei petrolieri) ci sono 8 mila persone tra disoccupati e inoccupati”. Senza contare che la nostra regione ha oltre 400 siti contaminati dalle attività estrattive: dati della Commissione Bicamerale sul Ciclo dei rifiuti.
Come se non bastasse, chi denuncia va in galera!
Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale di Potenza che aveva segnalato una massiccia presenza di idrocarburi nelle acque del lago del Pertusillo, a due passi dal Centro Oli Eni a Viggiano, è stato sospeso dal servizio, dalla paga e dai pubblici uffici per due mesi, sottoposto a un processo e spostato a guardare le statue in un museo. Stesso dicasi per il giornalista e coordinatore dei Radicali lucani Maurizio Bolognetti. E intanto, nel lago del Pertusillo i pesci continuano a morire e l’acqua di molti invasi e falde risulta contaminata da liquami di scarto ed idrocarburi. Nella sola Val d'Agri ci sono 39 pozzi, alcuni a pochi metri da una scuola materna, uno addirittura che sovrasta un municipio. “Sono stati trovati 6458 microgrammi/litro di idrocarburi in tre punti in cui il lago che porta acqua potabile nei rubinetti di Puglia e Basilicata è stato analizzato” denuncia Albina Colella, geologa e sedimentologa dell'Università degli Studi della Basilicata. “Su undici campioni di sedimenti, ben sette avevano presenza di idrocarburi superiori al limite di riferimento”. Ma non basta: uno studio dell’Università della Basilicata (Dipartimento di Chimica) ha rilevato tracce di idrocarburi in diversi campioni di miele prodotto a Corleto Perticara e in Val d’Agri dove l’attività di estrazione del petrolio da parte di Eni procede senza sosta, dopo che l’anno scorso il centro olio di Viggiano ha ottenuto tutte le autorizzazioni per la messa in funzione della quarta linea.
E oltre al danno ambientale si aggiunge la minaccia delle tecniche estrattive adoperate per la ricerca di idrocarburi: il famigerato fracking. Il cosiddetto “Hydraulic Fracturing” o più semplicemente fracking consiste nella fratturazione idraulica ottenuta mediante la pressione di un fluido per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso nel sottosuolo. La fatturazione viene eseguita dopo una trivellazione entro una formazione di roccia contenente idrocarburi, per aumentarne la permeabilità al fine di migliorare la produzione del petrolio o del gas da argille contenuti nel giacimento e incrementarne il tasso di recupero. Da notare che la fratturazione idraulica è sotto monitoraggio a livello internazionale a causa di preoccupazioni per i rischi di contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell'aria. In alcuni paesi l'uso di questa tecnica è stata sospesa o addirittura vietata. Le tecniche di microfratturazione idraulica del sedimento possono, in taluni casi, generare una micro-sismicità indotta e molto localizzata. L'intensità di questi micro-terremoti è di solito piuttosto limitata, ma ci possono essere problemi locali di stabilità del terreno proprio quando i sedimenti sono superficiali. Sono stati comunque registrati alcuni terremoti probabilmente indotti superiori al 5º grado della Scala Richter. Ad esempio nel Rocky Mountain Arsenal, vicino a Denver in Colorado, nel 1967, dopo l'iniezione di oltre 17 milioni di litri al mese di liquidi di scarto a 3.670 metri di profondità, furono registrate una serie di scosse indotte localizzate nell'area, con una punta massima di magnitudo compresa fra 5 e 5,5. E noi siamo una regione ad alto rischio sismico.
Meditate gente, meditate.
(Ilda)
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mercoledì 21 maggio 2014
L'oro nero non ci porta ricchezza!
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lunedì 7 aprile 2014
Il lavoro è diventato un’utopia per molti lucani. E le istituzioni sono sorde alle richieste della popolazione!
Alla base di tutto c’è la difficoltà a
inserirsi in un mercato del lavoro “chiuso”. Diversamente si potrebbe invertire
la tendenza a preferire città extraregionali per realizzarsi professionalmente
e pensare a un futuro più roseo grazie al quale costruire la propria famiglia. Secondo
l’Istat nel 2015 i giovani (compresi tra i 25 e i 35 anni) che lasceranno la
regione saranno 15.500 a fronte di una popolazione che è scesa a 576 mila
abitanti. Eppure La Basilicata possiede delle risorse naturali di tale
importanza da poter diventare una San Marino del Sud. A primo acchito il
ragionamento “trasuda” di demagogia, ma in fondo è ciò che pensa molta gente visti
i dati sui settori trainanti dell’economia lucana: royalties dell’oro “nero”
ridotti all’osso, quando in altri Paesi l’Eni lascia l’oltre il 40 per cento
del ricavato dell’estrazione petrolifera, siamo ricchi di acqua (che non va
negata a nessuno) ma che non porta entrate di rilievo, turismo in crescita
anche se l’offerta ricettiva è ancora ai primordi, risorse storiche, culturali
e ambientali. Infine abbiamo il comparto agricolo che fa da traino all’economia
lucana. Quando nacque la Fiat di San Nicola si fecero i primi calcoli di spesa
per la costruzione della fabbrica: un miliardo di lire per ogni operaio.
Nasceva in Basilicata il primo paradosso: istituire l’industria in pieno post
industrialismo, quando in regione il settore più importante per l’export è
l’agricoltura. Un’organizzazione agricola propose di offrire a ogni azienda
agricola 250.000 milioni di vecchie lire per potenziare la produzione e
introdurre nuove colture, favorendo anche maggiore occupazione. Ma le centrali
del potere, siano esse di destra o di sinistra (quest’ultima rea di aver
dimenticato le vecchie ideologie che ne faceva un partito attento ai problemi
dei lavoratori, dei disoccupati e delle questioni sociali), hanno preferito
foraggiare la Fiat tanto che oggi potremmo coniare un nuovo dettame
costituzionale: l’Italia è una Reppublica fondata non più sul lavoro ma sulle
decisioni di Marchionne. E così la comunità è costretta a sobbarcarsi i costi
della cassa integrazione, mentre molti stabilimenti della casa torinese
chiudono per essere trasferiti in Polonia o in altri Paesi. La Fiat sta
diventando come la Microsoft, la Intel, la Nike, la Shell (che ha sfruttato il
delta del Niger sotto la protezione dell’esercito lasciando gli Ogoni in uno
stato perenne di povertà e di inquinamento), la Mattel, il Mc Donald, etc. :
spostare la produzione in altre zone del pianeta, quelle più povere, dove per
anni non si paga l’imposta sul reddito e sulla proprietà e i lavoratori sono
costretti a turni che vanno dalle 12 alle 16 ore al giorno, il tutto per
qualche dollaro che basta per pagarsi un letto quando c’è, una piatto di
spaghetti fritti e qualche spostamento (in Indonesia i porcili sono stati
trasformati in dormitori e i posti letto sono demarcarti da una linea bianca).
In Pakistan un bambino che cuce un pallone Nike prende 6 centesimi all’ora. Nel
settore tessile un operaio cinese prende 67 centesimi di dollaro all’ora a
fronte dei 12 o 16 dollari pagati rispettivamente in America o in Germania, che
nel frattempo hanno chiuso i propri stabilimenti. Le grandi aziende non puntano
sulle fabbriche, sui macchinari che si usurano, sugli operai che invechiano e
che devono sostenere le famiglie ma sul marchio che è diventato cool (alla
moda) a prescindere da dove viene prodotto. Le “zone franche” nel mondo sono
circa 870 e riguardano 70 milioni di lavoratori sottopagati e ridotti alla
miseria e dove è vietata la sindacalizzazione, pena il licenziamento o altre
forme di ritorsione. Tranne alcuni movimenti che si muovo contro lo
sfruttamento, l’occidente, opulento e impaludato nelle secche
dell’etnocentrismo, continua a essere sordo alla povertà in aumento nel pianeta,
e non solo, e preferisce macerare le produzioni agricole in eccesso per non far
scendere il prezzo di mercato dei beni alimentari.
Intanto, in regione si registra un tasso di
disoccupazione superiore al 30 per cento tra giovani e ultra quarantacinquenni
che, nonostante i titoli o le capacità operative, non trovano lavoro a meno che
non hanno “un calcio” dal potere politico sempre più lottizzato e propenso ai
favoritismi.
(Pasquale P.)
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