A seguito
della pubblicazione sul giornale on line lavoce.info di un articolessa di
regime sulle condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie al momento
dell'invasione Garibaldina e durante le operazioni da Marsala a Gaeta, l'amico
Claudio Saltarelli ha richiesto agli studiosi della materia alcune informazioni
e il loro punto di vista sulla complessa questione dell'analisi economiche in
riferimento al nostro antico Regno. L'Istituto di Ricerca Storica delle Due
Sicilie è lieto di ospitare questo edificante dibattito culturale tra studiosi
della materia. I primi due interventi che pubblichiamo sono quelli di Luciano
Salero e di Ubaldo Sterlicchio. Un ringraziamento all'amico Claudio per aver
stimolato la riflessione e a presto leggerci per altri aggiornamenti in merito.
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Ell’Egregio
signor Saltarelli,
ho letto
attentamente l’articolo inviatomi e dal quale emerge un’interpretazione sui
generis, in chiave economico-finanziaria, degli avvenimenti che, a seguito
della spedizione di Mille, portarono alla caduta del Regno delle Due Sicilie.
Non ho motivo di dubitare circa la genuinità delle fonti archivistiche dalle
quali il giornalista ha attinto le notizie e sulla cui base ha articolato le
sue argomentazioni. Tuttavia, a mio avviso, nello scritto in questione prevale
solo ed esclusivamente il cosiddetto «senno del poi», in quanto il giornalista
Luciano Canova dà per scontato che il Regno borbonico era destinato a
«sgretolarsi» ed afferma che i «mercati finanziari e il debito pubblico ebbero
un ruolo» e furono addirittura un «investimento nello sgretolamento del regno
borbonico e nel successo dei garibaldini». E, sempre con il senno di poi, lo
stesso articolista si lascia andare in affermazioni gratuite ed storicamente
infondate,([1]) quale quella che
«Prima dell’inizio della spedizione di Mille, l’Europa guardava al Regno delle
Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile» e quella che «Si
trattava di capire di che morte il regno dovesse morire...». A mio modesto
avviso, ben altre furono le cause della caduta del Regno delle Due Sicilie, cui
conseguì l’ineluttabile deprezzamento dei titoli del debito pubblico borbonico
che, al termine della parabola discendente naturalmente legata agli eventi
negativi dell’invasione garibaldino-sabauda, come si evince dal grafico annesso
all’articolo in esame, si «allinearono al ribasso» (e non poteva essere
altrimenti!) proprio con i titoli piemontesi. Infatti, fino alla prima metà del
1860, i titoli di Stato delle Due Sicilie godevano ottima salute; prova ne sia
che - oltre ad avere una rendita consolidata del 5% - alla Borsa di Parigi
quotavano il 20% in più rispetto al loro valore nominale. Al contrario quelli
del debito pubblico piemontese quotavano il 30% in meno. Esisteva, cioè, una
forbice (adesso si chiama spread?!?) di ben 50 punti percentuali, quotando
quelli delle Due Sicilie al 120% (eccellente quotazione questa che il Canova,
ingiustificatamente, attribuisce ad una «bolla speculativa») e quelli del
Piemonte al 70% del loro valore nominale. È sufficiente consultare al riguardo
gli scritti di Giacomo Savarese per rendersi conto dell’abissale divario
qualitativo e quantitativo esistente, all’atto dell’invasione del Sud, fra le
finanze napoletane e quelle piemontesi, in favore delle prime.([2]) Quello dell’unità
d’Italia fu, quindi, solo un vergognoso pretesto, utilizzato dall’usurpatore
Vittorio Emanuele II di Savoia e dall’«arcicospiratore» suo primo ministro,([3]) per cacciare i
legittimi sovrani e saccheggiare le ricchezze degli altri Stati della Penisola
(in primis, quelle del florido Regno delle Due Sicilie), onde evitare la
bancarotta del misero e fallimentare Piemonte che, all’epoca, era indebitato
fino al collo, a causa delle gravosissime spese sostenute per la dissennata
politica militarista e guerrafondaia del megalomane Cavour.([4]) Basti pensare che,
per sola spedizione in Crimea (che comportò l’invio di 18 mila uomini, dei
quali 14 morirono in combattimento alla Cernaia e 1.300 a causa di un’epidemia
di colera), fu necessario ottenere in prestito dalle banche inglesi 1 milione
di sterline; contratto nel 1855 dal Piemonte, il debito (comprensivo dei
relativi interessi) verrà estinto solo nel 1902 ed a spese di tutti i
contribuenti italiani.([5]) Durante il solo
anno 1859, mentre il Regno di Napoli aumentava gli interessi del suo debito
pubblico di 5.210.731 lire, il Piemonte aumentava gli interessi del suo debito
pubblico di 58.611.470 lire: più del decuplo di quelli napoletani.([6])
Il grafico
annesso all’articolo in oggetto evidenzia, invece, un altro aspetto cruciale e
cioè che sul Regno delle Due Sicilie, già condannato a morte dalle due grandi
potenze capitalistico-massonico-liberali dell’epoca (Inghilterra e Francia),
durante la «piratesca» avventura garibaldina e la «barbarica» invasione sabaudo-pimontese,
si abbatté anche la speculazione finanziaria dei Rothschild e dei loro degni
compari europei. Ma è altrettanto facile intuire che, in caso di vittoria
borbonica, questa speculazione non avrebbe avuto successo alcuno, in quanto la
solidissima economia del Regno del Sud era senz’altro potenzialmente idonea a
reggere con efficacia quest’urto speculativo. L’anno 1859 si era, infatti,
chiuso con la seguente situazione finanziaria:
- debito
pubblico del Regno di Napoli 411.475.000 lire
- debito pubblico
del Regno di Piemonte 1.121.430.000 lire
ed, atteso
che il primo contava una popolazione media residente di 6.970.018 abitanti ed
il Piemonte di 4.282.553 abitanti, il debito pro capite era pari a 59,03 lire
per un napoletano ed a 261,86 lire per un piemontese; vale a dire che il Regno
dei Savoia era oberato da un debito pubblico 4 volte superiore a quello dello
Stato dei Borbone!
Nel Regno di
Sardegna «...ci fu un indebitamento colossale, coprire un debito con un altro
debito, pagare una rata d’interessi facendo ancora un debito era diventato il
sistema di governo: tra il 1849 ed il 1858 il Piemonte contrasse all’estero,
principalmente con il banchiere James Rothschild, debiti per 522 milioni -
quattro annate di entrate fiscali. Si sostiene che lo Stato sabaudo si piegò
alla necessità della unità nazionale e si aggiunge che è doveroso essere grati
ai Savoia; di certo - di storico - c’è solo il fatto che il Regno di Sardegna
se la cavò riversando i suoi debiti sul resto dell’Italia autoannessasi».([7])
Gli
avvenimenti del 1860, dal 1 gennaio sino al 7 settembre (giorno dell’ingresso
di Garibaldi in Napoli), costarono al Regno delle Due Sicilie la somma di
55.248.618,79 lire, mentre il Piemonte, in quello stesso anno, aumentava il suo
debito di altri 150 milioni di lire. Seguiva l’anno 1861 ed il Regno d’Italia
s’inaugurava a Torino con un altro debito di 500 milioni di lire. A questa
cifra andò ad aggiungersi il disavanzo che, dal 7 settembre 1860 al 31 dicembre
1861, fu accumulato di governi dittatoriale garibaldino, prima, e
luogotenenziale sabaudo, dopo, pari a 127.496.812 lire.([8])
A conti
fatti, alla fine dell’anno 1861, il debito pubblico piemontese aveva raggiunto
i 2 mila milioni di lire, una cifra astronomica per quei tempi, specialmente
per un piccolo Stato come il Piemonte.([9]) Inoltre, al Sud,
con un terzo della totale popolazione italiana, circolava il doppio di moneta
che nel resto d’Italia messo insieme.([10]) In particolare,
al momento dell’annessione, le Due Sicilie possedevano 443.200.000 di lire-oro,
mentre tutti gli altri Stati pre-unitari insieme ne avevano 225.200.000; il
Regno di Sardegna, in particolare, possedeva appena 27.000.000 di lire-oro. Ma
c’è di più. Nel Regno di Piemonte, le riserve auree garantivano solamente un
terzo della carta-moneta circolante (vale a dire che 3 lire di carta valevano 1
sola lira d’oro); nelle Due Sicilie, invece, venivano emesse principalmente
monete d’oro e d’argento, e le riserve coprivano interamente quel poco di
valuta cartacea ivi esistente.([11]) La valuta
piemontese era, quindi, carta straccia, mentre quella napolitana era
solidissima e convertibile per sua propria natura: una moneta borbonica aveva
un suo valore intrinseco, in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa
contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale. In parole povere,
mentre il Regno delle Due Sicilie era pieno di soldi, il Piemonte era pieno di
debiti, tanto che, senza tema di smentita, possiamo affermare che
l’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma
la ragione dell’Unità d’Italia.([12]) E solamente da
questo punto di vista la spedizione dei mille può essere considerata come un...
«investimento» per i piemontesi! Oltremodo appropriata appare la colorita
affermazione di Giacinto de’ Sivo: «...Torino fe’ debiti per 24 volte più di
noi... e Torino, più non avendo da mangiare, venne a mangiar Napoli».([13]) Infatti, «senza
il saccheggio del risparmio storico del Paese borbonico, l’Italia sabauda non
avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnazione la Banca Nazionale
degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al sud avrebbe fornito 500
milioni di monete d’oro e d’argento, una massa imponente da destinare a
riserva, su cui la banca d’emissione sarda, che in quel momento ne aveva
soltanto per 100 milioni, avrebbe potuto costruire un castello di carta-moneta
bancaria alto 3 miliardi...», scriveva Zitara, per poi concludere: «insomma,
per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l’unica risposta a portata di mano,
per tentare di superare i guai in cui s’erano messi». In sostanza, il Sud fu
costretto a pagare tutte le spese di guerra del Piemonte, anche quelle
sostenute per combattere i meridionali stessi!([14]) Sotto il profilo
squisitamente storico degli avvenimenti, Luciano Canova ricalca poi la solita
vulgata risorgimentalista, definendo «grosso smacco per l’armata borbonica» la
«vittoria comprata» di Calatafimi; nonché, parlando di «abilità tecnica» di
Garibaldi, da una parte, e di «disorganizzazione delle truppe regie»,
dall’altra, relativamente alla conquista di Palermo. Come al solito, il Canova
non conosce - o fa finta di non conoscere - la verità storica di come si
svolsero effettivamente i fatti. A Calatafimi, il 15 maggio 1860, la vittoria
garibaldina non fu conseguita sul campo, bensì fu «comprata» dallo stesso
Garibaldi, il quale aveva preventivamente corrotto il generale borbonico
Francesco Landi; la qual cosa spiega anche l’ostentata sicurezza con la quale
il nizzardo affermò: «Bixio, qui si fa l’Italia o si muore», in quanto era ben
sicuro di... non morire! Infatti, proprio allorquando le truppe borboniche
stavano sgominando i garibaldini con un battaglione (quattro compagnie) dell’8°
Cacciatori al comando del maggiore Michele Sforza, vennero costrette a
ritirarsi per ordine del generale Landi. Il giorno 17 maggio, il Landi, dopo
aver fatto fare inutili giri alle truppe, si ritirò incomprensibilmente in Palermo.
Il comportamento del Landi diventerà comprensibilissimo allorquando si scoprirà
che lo stesso aveva ricevuto da emissari di Garibaldi una fede di credito
(documento simile agli odierni assegni) di 14.000 ducati (valutabile in circa
700.000 euro attuali!) come prezzo del suo tradimento. Il Landi fu quindi
sostituito nel comando dal generale Ferdinando Lanza, un altro traditore!
Costui, infatti, pur disponendo di ben 25.000 uomini addestrati e ben
equipaggiati, li rinchiuse nei forti di Quattroventi, Palazzo, Castellammare e
Finanze, lasciando a presidio degli ingressi di Palermo solamente 260 reclute.
Garibaldi, pertanto, nella notte fra il 26 ed il 27 maggio, assalì la città ed
ebbe gioco facile sulle esigua guarnigione posta a difesa. Il 20 luglio si ebbe
lo scontro di Milazzo, dove il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco (che
non era nel libro paga dei piemontesi!) mise in difficoltà i garibaldini
comandati da Giacomo Medici, subito soccorso dallo stesso Garibaldi. Ma i
garibaldini disponevano di abbondante artiglieria, di posizioni favorevoli e
dell’appoggio dal mare della nave «Tucköry», la ex corvetta borbonica «Veloce»
comandata dall’ammiraglio Amilcare Anguissola (un altro traditore passato dalla
parte dei garibaldini). Il colonnello del Bosco resistette a tutti gli
attacchi; tuttavia, i valorosi soldati napoletani, per il mancato invio dei
necessari rinforzi da parte del generale Clary (un altro ufficiale borbonico
vendutosi al nemico!), di fronte ad un numero preponderante di circa 10.000 assalitori,
furono costretti a ritirarsi nel Forte di Milazzo. Come ben si può vedere, i
mercati finanziari e il debito pubblico napoletano non ebbero, pertanto, alcun
ruolo «nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini»,
ma si verificò l’esatto contrario. I rovesci subiti dall’esercito borbonico
furono, infatti, determinati tutti dal tradimento dei generali (cosa che nulla
ha a che vedere con il c.d. spread), mentre la perdita di valore dei titoli di
Stato delle Due Sicilie è stata la naturale conseguenza, soprattutto, delle
ruberie che la nostra terra ha subito a seguito della calata dal nord dei
barbari invasori e della successiva fusione del debito pubblico napoletano con
quello piemontese. Come abbiamo visto, quest’ultimo era ben 4 volte superiore a
quello delle Due Sicilie e, con l’unificazione politico-territoriale della
Penisola, il debito pubblico degli Stati pre-unitari confluì in quello del
Regno d’Italia e tutti i relativi titoli si «allinearono», ob torto collo, con
i titoli piemontesi che, già nel 1859, quotavano intorno al 70% del valore
nominale! Pertanto, a seguito della fusione, i meridionali dovettero pagare
anche il debito pubblico piemontese che, come abbiamo già avuto modo di vedere,
era 4 volte superiore a quello delle Due Sicilie.([15]) Dalla tabella
annessa all’articolo del Canova, si rileva infatti che, durante tutto il 1860,
il titolo napoletano non risulta aver toccato nemmeno i 75 punti percentuali e
che quindi aveva mantenuto comunque valori più alti di quello piemontese.
Bastarono appena sessanta giorni di dittatura garibaldina per distruggere le
floride finanze e l’economia del Regno borbonico; nel giro di due mesi,
infatti, le casse dello Stato napoletano vennero vuotate. Mai nel corso della
sua millenaria storia, l’Italia aveva «veduto ladrocini simili a quelli che si
ebbero a Napoli durante il periodo garibaldino... Nella capitale del Sud l’eroe
dei due mondi, o dei due milioni, trovò denaro in abbondanza, e lo usò in modo
sconsiderato, mentre i suoi seguaci si appropriarono indebitamente delle
consistenti ricchezze personali di Francesco II e della dote di Maria Sofia.
[...] Furono rubati tutti denari depositati nelle banche, tutti i preziosi
custoditi nei musei, le opere d’arte nei palazzi reali e nobiliari, le armi
negli arsenali e finanche beni personali nelle private residenze di molti
cittadini».([16]) Ascoltiamo, a
tale riguardo, due incontrovertibili testimonianze: quella di Vittorio Emanuele
II, il quale, subito dopo l’incontro di Teano, così scrisse a Cavour: «...come
avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi,
sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile, né così
onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è
molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato
commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da
attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i
cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione
spaventosa...»;([17]) e quella di
Francesco Guglianetti, segretario generale presso il ministero dell’Interno
piemontese, il quale, riferendosi ai garibaldini che avevano approfittato della
situazione, scris-se a Farini di aver saputo «da persona autorevole che
parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche
piene di biglietti da mille lire».([18]) Purtroppo, le
prove documentali contabili di tutti quegli orrendi sperperi, di tutti i soldi
rubati ai Borbone e poi scialacquati in modo vergognoso ed inetto, finirono
nelle profondità del mare delle Bocche di Capri, insieme al piroscafo Ercole ed
al povero, ma onesto, poeta amministratore dei Mille, Ippolito Nievo. Si trattò
del primo «delitto di stato» della nuova Italia Una. A questo punto, appare ben
chiaro quali furono le cause effettive del deprezzamento dei titoli di Stato
delle Due Sicilie e veramente «fantasiosa» sembra poi l’affermazione
dell’articolista secondo il quale «è un po’ come se Garibaldi avesse detto
“obbedisco!” non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild»,
finanzieri che forse il nizzardo non conosceva nemmeno. Al contrario, costui
conosceva molto bene gli ambienti della massoneria internazionale ed, in
particolare, di quella inglese, nel cui ambito furono raccolti ben 3 milioni di
franchi-oro (convertiti poi in 1 milione di piastre turche) per finanziare la
spedizione dei Mille. Questo enorme quantitativo di denaro (del valore di oltre
20 milioni di euro attuali), unitamente a quello rapinato presso i banchi di
Palermo e di Napoli servirono per corrompere generali, ammiragli, politici ed
alti dignitari del Regno delle Due Sicilie, nonché per riempire le tasche degli
stessi garibaldini e dei loro amici. Ma le ruberie ai danni delle Due Sicilie
non terminarono con l’unificazione. A causa delle continue guerre che i
savoiardi combattevano, anche quel simulacro di convertibilità in oro andò a
farsi benedire, a tal punto che, ancor prima dello stesso 1861 la
«carta-moneta» piemontese era diventata «carta-straccia» a causa dell’emissione
incontrollata che se ne fece.([19]) Avvenuta la
conquista di tutta la Penisola, i piemontesi misero le mani nelle banche degli
Stati appena conquistati. La Banca nazionale degli Stati Sardi divenne, dopo
qualche tempo, la Banca d’Italia. Dopo l’occupazione del Sud, fu immediatamente
impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di
Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d’oro, per trasformarle
in carta-moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi del
tanto bistrattato Sud avrebbero potuto emettere carta-moneta per un valore di
1.200 milioni di lire e, così facendo, sarebbero potuti diventare padroni di
tutto il mercato finanziario italiano. La politica fiscale perseguita dallo
Stato unitario fu trasformata allora in un’attività di vero e proprio drenaggio
di capitali che, dal Sud, andarono al Nord. Questa operazione fu resa possibile
grazie, e soprattutto, alla famigerata e truffaldina legge sul «corso forzoso»,
approvata il 1 maggio 1866, attraverso la quale fu eliminata la convertibilità
della moneta in oro (che, già originariamente, era nel rapporto secondo cui 3
lire di carta erano convertibili in 1 lira d’oro).([20]) Ma l’aspetto
osceno fu quello di riconoscere il «principio della inconvertibilità» solo per
la moneta della Banca Nazionale e non anche per quella del Banco di Napoli (suo
vero competitore!), che rimase così obbligato a «dare oro in cambio di carta
straccia» abbondantemente stampata dalla stessa Banca Nazionale. Il partito
unitarista ebbe come slogan quello del «libero mercato», contro il «protezionismo
borbonico»; ma se si fossero lasciate agire liberamente le forze del mercato,
la Banca Nazionale e le sue collegate sarebbero forse fallite, lasciando il
Banco di Napoli alla testa del sistema bancario italiano. Il menzionato
intervento politico dello Stato sabaudo ci fu per risolvere una partita che, a
livello economico, si stava mettendo malissimo per il Nord.([21]) Quell’oro, piano
piano, passò nelle casse piemontesi ed, attraverso questi strumenti scorretti e
disonesti, il prospero Regno delle Due Sicilie, in poco tempo, fu portato al
tracollo finanziario. Questa è la vera storia e non la fantasiosa interpretazione
di un grafico tabellare!!! Finanche un convinto unitarista meridionale, come
Giustino Fortunato, nella lettera del 2 settembre 1899 a Pasquale Villari,
affermò che: «L’unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica.
Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico,
sano e profittevole. L’unità ci ha perduti!». In realtà, il Regno delle Due
Sicilie ed il suo popolo furono vittime di una colossale ingiustizia,
perpetrata dal Piemonte con la complicità delle massime potenze
massonico-liberali dell’800.([22]) In conclusione,
appare davvero fuorviante giudicare l’ieri da quello che è l’oggi. Infatti, nel
1866, allorquando i titoli di Stato italiani arrivarono a valere due terzi del
loro valore nominale,([23]) stando alla
teoria enunciata dal signor Luciano Canova, avrebbero dovuto conseguire
ineluttabilmente anche il «crollo» della dinastia savoiarda e lo «sgretolamento
del Regno d’Italia»; cosa questa che, purtroppo, non c’è stata.
Egregio signor
Saltarelli,
credo che
siano sufficienti queste brevi considerazioni per chiarirci le idee e porre in
luce la scarsa valenza storico-scientifica rivestita dalle argomentazioni del
signor Canova.
Io,
tuttavia, dubito fortemente se valga o meno la pena di replicargli, in quanto
credo che ci troveremmo di fronte al solito muro ideologico. Basta poco per
capirlo. Costui, infatti, con la solita retorica risorgimentalista, parla di
«scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino» e di «finanza... pronta
a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore [sic!] Savoia»; inoltre, come tutti i
risorgimentalisti, comodamente seduto sul carro del vincitore, sciorina le sue
opinioni ed i suoi convincimenti, pensando di essere depositario di verità
assolute. Io personalmente mi asterrei, in quanto penso che il discutere con
questi signori sia solamente una perdita di tempo, senza che ne consegua alcun
vantaggio per la Causa.
Tuttavia,
qualora Lei voglia replicare, possiamo risentirci e concordare il da
farsi.
Gradisca i
miei più cordiali saluti, Ubaldo Sterlicchio.
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Caro
Saltarelli,
non mi
sopravvaluti e non si aspetti nessun tentativo di replica scientifica da parte
mia per una ragione semplicissima ovvero che quanto scrive questo signore non
merita riscontro perché sostiene cose talmente ovvie e scontate che non
richiedono smentite. Costui, nel 1860, in pieno sfacelo del Regno (ovvero dello
Stato) dimostra con tanto di grafico a supporto della difficilissima tesi che
sostiene, che i titoli di stato subirono un crollo verticale! E avrei voluto
vedere il contrario! Costui scopre l'acqua calda ed è come se sostenesse che
uscendo di casa sotto un violentissimo temporale un povero cristo, senza
ombrello, si bagna e più tempo resta esposto al diluvio più si infradicia.
Questo, caro Saltarelli, non merita una risposta, merita solo di esser preso in
giro, con garbo, educazione, ma con fermezza. Costui parla del crollo delle
“rendite” ma evita con cura di ricordare che all'atto della cosiddetta unione
(che, poi, fu annessione della peggiore specie, paragonabile ad una conquista
di stampo coloniale) le Due Sicilie possedevano una riserva aurea di 445,2
milioni di lire contro i 27 del Piemonte, ridotto con le pezze al culo. Che il
capitale circolante nelle Due Sicilie (sempre al tempo dell'annessione)
ammontava ad oltre 20 miliardi degli attuali euro ed era più del doppio di
quello di tutti gli altri Stati pre-unitari messi insieme, che, inoltre, le
monete duosiciliane erano tutte coniate in metallo nobile (oro e argento) e
convertibili in oro mentre in Piemonte (solo per una su tre era possibile
questa operazione). E ce ne sarebbero ulteriori argomenti da citare. E questo
ci viene a parlare di crollo della rendita quando prima della rendita era
crollato lo Stato? Ma si rende conto caro Saltarelli? Infine se proprio gli
vuol rispondere gli consigli di darsi una lettura al brevissimo quanto preciso
e documentato saggio di Giacomo Savarese “Le finanze napoletane e le finanze
piemontesi dal 1848 al 1860” edito da Controcorrente, Napoli, 2003 nella
collana “Biblioteca Storica” (con introduzione di Aldo Servidio) ; vi troverà
una serie di interessantissime notizie che gli potranno tornare utili in
seguito qualora decidesse di scrivere qualcosa di sensato sull'argomento. Poi,
caro Saltarelli, se proprio vuol far ricorso a qualcosa attribuibile al
sottoscritto, le ricordo (qualora lo abbia disponibile) di andarsi a rileggere
alle pagine 444, 479 e 481 del mio "Garibaldi. Fauché e i predatori del
Regno del Sud” quanto riporto sulla permanenza a Napoli del Commissario
Governativo per le Finanze (piemontesi), Cavalier Vittorio Sacchi, inviato,
appunto a Napoli, da Cavour per valutare, approfondire e studiare le tecniche e
le procedure adottate dall'ormai ex Regno Napoletano in materia tributaria e di
finanza pubblica. Ecco, caro Saltarelli, questi sono argomenti seri che vale la
pena segnalare e, semmai, dibattere. Il resto sono soltanto chiacchiere che non
significano niente perchè, oramai, i giochi erano fatti! L'Inghilterra aveva
raggiunto il suo scopo grazie all'appoggio ed al denaro della Massoneria. Il
Regno delle Due Sicilie era stato cancellato dalla carta geografica dell'Italia
e dell'Europa. I torti da attribuire al Borbone possono essere tantissimi ma,
fra questi, certo non c'è quello di non aver saputo amministrare le finanze
pubbliche. Concludo (per esser certo di farmi capire, ma non da lei che mi ha
capito benissimo) sarebbe come constatare, al cospetto di un palazzo crollato,
il grave inconveniente della impossibilità di prendere l'ascensore! Cose da
pazzi!
Cordiali
saluti.
Luciano
Salera.
NOTE
[1] La verità è che, a seguito
dell’unificazione politico-territoriale della Penisola nel 1860-61, la storia
di quegli avvenimenti fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i
Savoia, i quali dovevano giustificare, ai contemporanei e ai posteri,
l’illecita invasione del Regno delle Due Sicilie (un legittimo Stato sovrano,
che non minacciava nessuno e che, per sua secolare vocazione, era in pace con
tutti gli altri Stati, italiani ed europei - compreso il Regno di Sardegna -
con i quali intratteneva regolari relazioni diplomatiche), avvenuta senza casus
belli, cioè senza motivazioni politico-giuridiche e, cosa
gravissima, senza dichiarazione di guerra. Si toccarono, in tal maniera,
gli stessi infimi ed incivili livelli della pirateria (con la spedizione dei
Mille) e delle invasioni barbariche (con l’aggressione piemontese), in
violazione alle più elementari norme dello jus gentium. Infatti, come
giustamente afferma Elena Bianchini Braglia (Cfr. Risorgimento: le radici della
vergogna. Psicanalisi dell’Italia), nella storia, anche in quella più remota,
anche in quella dei secoli che gli stessi liberal-massoni dell’Ottocento
definivano oscuri e barbari, mai nessuna guerra fu reputata legittima senza
essere sorretta dall’atto formale della sua dichiarazione. Prima che un
esercito invadesse uno Stato, occorreva che un previo documento denunciasse
motivazioni, eventuali colpe commesse, eventuali atti di riparazione chiesti, e
annunciasse un intervento armato solo qualora questi non venissero concordati.
Questa era la «barbarie dei secoli oscuri». La civiltà dei secoli illuminati,
invece, ammette che un esercito attacchi e vada ad occupare terre altrui senza
alcuna motivazione o preavviso... E tutti risorgimentalisti, a cose fatte, si
beano nell’attribuire al «genio» di Cavour & compari meriti mai avuti.
Vedansi anche gli apprezzamenti di Patrick Keyes O’ Clery nella seguente nota
3.
[2] Giacomo Savarese, “Le finanze
napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, 1862, a cura di Aldo
Servidio e Silvio Vitale, Controcorrente, Napoli, 2003.
[3] «Amanti della Verità qual siamo,
non abbiamo altro obiettivo che dissipare la nuvola di pregiudizio e di inganno
che ha, fin qui, oscurato la narrazione di quegli eventi agli occhi di molti
che ne condannerebbero come noi gli autori, se conoscessero il vero carattere
della rivoluzione che ha creato la cosiddetta unità d’Italia. Noi la
giudicheremo non dalle invettive dei suoi nemici, ma dalle confessioni degli
amici, molti di loro complici ed alleati dell’arcicospiratore Cavour.
Una cosa chiediamo che ci sia riconosciuta: il principio da cui siamo partiti e
cioè che la falsità non diventa verità perché asserita da uno statista o da un
re, e che il furto non cessa di essere disonesto e disonorevole quando il
bottino è un intero Regno». Così Patrick Keyes O’ Clery, in “La rivoluzione
italiana. Così fu fatta l’unità della nazione”, trad. it. Ares, Milano, 2000.
[4] Pier Carlo Boggio, deputato
piemontese, nel suo Pamphlet “Fra un mese”, pubblicato nel 1859; cfr.
Angela Pellicciari, “I panni sporchi dei Mille”, Liberal, Roma, 2003, pag. 146.
[5] Gigi Di Fiore, Controstoria
dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del risorgimento”, Rizzoli, Milano, 2007,
pagg. 58-59.
[9] Dalla lectio dedicata a
Marco Minghetti, tenuta dall’economista liberale Vito Tanzi (ex direttore del
Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo Monetario Internazionale dal 1981 al
2000; consulente della Banca Mondiale, nonché sottosegretario all’Economia dal
2001 al 2003) il 25 ottobre 2011 presso la Fondazione CRT di Torino su “150
anni di finanza pubblica in Italia”; cfr. Il Giornale del 26 ottobre 2011.
[10] Francesco Saverio Nitti (uomo
politico ed economista, nonché Presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919
al 15 giugno 1920),
“Scienza delle Finanze”, Pierro, 1903, pag. 292.
[11] Era una specie di moneta cartacea
costituita dalle «fedi di credito» e dalle «polizze notate», emesse dal Banco
delle Due Sicilie (una istituzione pubblica seria, stimata sia all’interno che
all’estero), le quali avevano una storia secolare ed erano apprezzate più
dell’oro, perché interamente garantite nel loro valore nominale, che era
pagabile a vista con monete-oro contanti, sia presso gli sportelli del Banco,
che nelle tesorerie provinciali. Cfr. Nicola Zitara, “La gran cuccagna dei
fratelli d’Italia”, periodico Due Sicilie n. 2/2004.
[15] Giacinto de’ Sivo, “I Napoletani al
cospetto delle Nazioni Civili”, a cura di Silvio Vitale, Il Cerchio, Rimini,
1994.
[17] Gennaro De Crescenzo, “Contro
Garibaldi. Appunti per demolire il mito di un nemico del Sud”, Il Giglio,
Napoli, 2006, pag. 29.
[18] Francesco Guglianetti a Luigi Carlo
Farini, Torino, 7 ottobre 1860; in Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia
unita, 1855-1864”, Sansoni, Milano, 1999, pag. 229.
[19] “La storia del debito pubblico
italiano inizia nel 1861 con l’unità d’Italia”, Veya.it, 16 settembre 2011;
nonché Fabio Calzavara, “Le origini della Banca d’Italia”, tratto da “Le Banche
dei Fratelli d’Italia”, su: http://cronologia.leonardo.it, 18 gennaio 2008.
«Nel 1849 si era costituita in Piemonte la Banca Nazionale degli Stati Sardi,
di proprietà privata. Cavour, che peraltro aveva i propri interessi in quella
banca, impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituto compiti di
tesoreria della Stato (configurandosi, in tal modo, un gigantesco conflitto
d’interesse!). Fu così che ad una banca privata (antenata della privata Banca
d’Italia S.p.a.) fu conferito l’enorme potere di emettere e gestire denaro
dello Stato! A quei tempi l’emissione di carta moneta avveniva solo in
Piemonte».
[20] Certo, le
giustificazioni non mancarono: all’epoca si addussero “motivi patriottici” e,
cioè, quelli della guerra contro l’Austria; ma, se così fosse stato, perché il
corso forzoso fu mantenuto fino al 1883 e, quindi, ben oltre la breve terza
guerra d’indipendenza del 1866 e della stessa presa di Roma del 1870? Non
mancarono ulteriori giustificazioni, quali quella che la necessità del corso
forzoso derivava dalla crisi dell’industria, messa in ginocchio dalla
concorrenza straniera; ma perché, allora, non si ricorse al normale sistema
della tariffa doganale al posto di quello, indiretto e macchinoso, del corso
forzoso? La risposta a tali domande è che il corso forzoso era stato introdotto
per togliere d’impaccio la Banca Nazionale e le banche ad essa collegate che,
grazie alla loro allegra finanza, si trovavano sull’orlo del fallimento: la
inconvertibilità della sola moneta della Banca Nazionale permise, a questa, di
continuare placidamente il suo drenaggio di capitali e di oro dal Sud, essendo
rimasta invece convertibile la moneta del Banco di Napoli.
[23] Carlo Coppola, “L’insabbiamento
culturale della Questione Meridionale”, cronologia.leonardo.it/storia/a1 -
2010.
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