lunedì 6 aprile 2020

1799: una rivoluzione di pochi e l'ossimoro di Cuoco


di Luigi Pistone

Mille e duecento martiri in nome di un progetto che naufragò miseramente per incapacità dei rivoluzionari di sensibilizzare le classi più umili, coloro che nonostante la miseria e i soprusi subiti continuavano a inneggiare il ritorno del re Borbone.
Sono passati 221 anni ed è necessaria una riflessione per analizzare un momento storico molto particolare per le vicende del Sud Italia e dell'intera Europa: "la rivoluzione napoletana del 1799", con i suoi martiri e i suoi progetti costituzionali. Senza voler entrare nel merito delle vicende che tutti più o meno hanno studiato per sommi capi sui manuali di storia, una riflessione su un aspetto della "rivoluzione" nell'epoca della comunicazione è doverosa. Se è vero che i patrioti napoletani, tra cui tantissimi lucani, ebbero il merito di rafforzare ulteriormente quei concetti che furono alla base dei moti risorgimentali, è altrettanto lapalissiano che l'esperimento partenopeo ebbe brevissima durata, tanto non consentire ai costituzionalisti, tra cui il corregionale Mario Pagano, di poter far approvare la piattaforma legislativa su cui edificare la repubblica.
Pur ammettendo alcune straordinarie peculiarità del movimento, sarebbe meglio scrivere, però, di rivoluzione e lotte per l'ascesa al potere di un gruppo di giacobini locali graditi agli invasori e protetti dai loro archibugi. In effetti per poter spazzare l'esercito borbonico di Ferdinando e Carolina, che per quanto in "male arnese" e poco organizzato era pur sempre temibile, dovevano giungere in Italia le armate del giovane generale napoleonico Jean-Etienne Championnet che alla testa delle sue truppe permise ai "patrioti" napoletani di proclamare la repubblica, d'insediarsi al governo, indire pubblici festeggiamenti, sprofondarsi nello studio di alcune leggi e riforme e procedere all'imposizione di un balzello, concepito per «tassare le opinioni», naturalmente quelle degli avversari.
Era un ristretto circolo di intellettuali, come scrisse Benedetto Croce, il fior fiore della cultura napoletana, quasi tutti borghesi benestanti, agiati professionisti, colti e virtuosi studiosi di fama anche europea. Del "gruppo" facevano parte anche aristocratici famosi per i loro patrimoni e il loro disprezzo per i Borbone e gentildonne desiderose dispiegare al popolo, affezionato alla regina, che era giunta l'ora di «mozzarle la testa», così come era avvenuto a Parigi con altri regnanti. La storia ci ricorda come andò a finire; dopo aver proclamato la repubblica, il 22 gennaio 1799 e iniziato a sostituire la legislatura borbonica, facendo decadere la feudalità, i fautori della repubblica partenopea dovettero lasciare il campo ai Borbone che l'8 luglio dello stesso anno fecero rientro a Napoli. Ferdinando quarto, rimesso sul trono dal cardinale Ruffo e dai cannoni delle navi inglesi, per prima cosa si rimangiò le condizioni della capitolazione, mettendo a morte, sotto precisi ordini dell'ammiraglio Nelson, 1200 patrioti. Al di là dell'atroce atto, l'ennesimo a carico di dinastie scellerate e cialtrone, che portò alla morte menti fervide che tanto avrebbero potuto dare alla civiltà, resta il dubbio: ci fu davvero la rivoluzione?. Risponde lo stesso Vincenzo Cuoco, il quale nel suo "Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli", nonostante la comune passione con i patrioti partenopei, prende le distanze da tale concetto. Lo storico, infatti, dopo essersi dilungato in speciose spiegazioni sulla differenza tra "rivoluzioni attive" e "rivoluzioni passive" finisce per catalogare quella di Napoli nel secondo caso, inventando un ossimoro. Che cosa mancò per rendere la causa conosciuta e accettata da tutti, soprattutto da quelle classi che nell'uno o nell'altro caso avevano poco da guadagnare in termini di qualità della vita? La comunicazione e la capacità di essere davvero protagonisti della storia che si stava compiendo. Non riuscirono a farsi comprendere dal popolo e pur profondendo generosi intenti, i "rivoluzionari" non riuscirono a governare. Annunciavano la rivoluzione su fogli, libelli e discorsi ai quali, però, non seguiva inevitabile l'azione. Come potevano mai scendere nelle piazze abitate dalla plebe e da quegli stessi lazzaroni che, abbandonati dal re Borbone, insorse al grido di «viva la Santa Fede, viva san Gennaro, morte ai giacobini»? Gli stessi la cui difesa di Napoli fu considerata "eroica" da Chanpionnet. I rivoluzionari della repubblica poterono vantare la sola occupazione di Castel Sant'Elmo e solo con i francesi ormai alle porte della città. Per vincere la partita gli italiani avrebbero dovuto aspettare l'esercito piemontese. E in quest'ultimo caso si apre un'altra brutta pagina di storia per le popolazioni del Mezzogiorno che merita un'analisi a parte.

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