giovedì 24 marzo 2016

I misteri dell'attentato di Parigi del 13 novembre 2015. E non solo

L'intera narrazione ufficiale delle Stragi di Parigi del 2015 è stata inquinata da disinformazione, manipolazione, distrazione di massa. Ecco i fatti. [Giulietto Chiesa]

A inizio 2015 scrissi un saggio e pubblicai un video su Pandora TV, intitolato "I Misteri di Parigi". Si riferiva alla tragedia del Charlie Hebdo del gennaio di quell'anno.
 Avendo studiato a fondo gli eventi dell'11 settembre 2001, avevo la certezza che alle mie domande sul caso Charlie Hebdo non ci sarebbe stata risposta. I misteri dell'epoca dell'inganno universale non sono rivelabili. La società intera dell'Occidente esploderebbe se la verità venisse scoperta. Si può solo, testardamente, accumulare gl'indizi che dimostrano che essa non corrisponde a ciò che ci lasciano vedere e che ci costringono a credere. Le conseguenze le lascio a coloro che tramano contro di noi.
 Ma allora non potevo nemmeno immaginare che avrei raggiunto la certezza della validità dei miei dubbi solo qualche mese dopo averli espressi.
Ora possiamo affermare che l'intera narrazione ufficiale degli eventi del Charlie Hebdo - insieme alle sterminate narrazioni "derivate" che la stampa e tutti gli organi del mainstream hanno prodotto - sono opera di disinformazione, di manipolazione, di distrazione di massa. Il ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve, dopo adeguata meditazione, ha infatti deciso che l'indagine in corso per accertare tutte le responsabilità di quella strage doveva essere fermata, chiusa a chiave, archiviata. La motivazione? "Segreto militare" [1].
 È del tutto evidente che il segreto militare serve, per l'appunto, a coprire delle responsabilità.
Ovvio che non si tratta delle responsabilità dei "terroristi" che hanno fisicamente preso parte all'azione delittuosa. Il termine "preso parte" è sufficientemente indistinto e tale da consentire interpretazioni molto diverse l'una dall'altra. Può voler dire: partecipazione consapevole, attiva, progettuale, ecc; può anche voler dire partecipazione inconsapevole, involontaria, "colposa"; può voler dire partecipazione coatta. Tutte queste possibili - ed eventuali - forme di partecipazione devono essere indagate, chiarite, scoperte. È la sostanza dell'indagine: quella che può consentire di risalire alle motivazioni, alle complicità, ai mandanti, a coloro che hanno tramato. Il "segreto militare" non può essere invocato in alcun caso tra quelli sopra elencati. Esso viene invocato perché serve a coprire responsabilità delle autorità, degli organi di polizia, dei servizi segreti. Non serve di certo agl'interessi della democrazia.
Dunque la decisione di Cazeneuve è la prova che in una qualche fase del massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo, e dell'assalto al grande magazzino casher, vi sono state complicità, mancanze, errori da parte di organi dello Stato o di altri Stati.
Ma, le mancanze e gli errori dovrebbero - una volta individuati - non solo essere perseguiti con il massimo rigore, ma anche resi pubblici per evitare che si ripetano, per essere corretti, eliminati. Le indagini si fanno per questo. Dunque anche in questi casi non è concepibile il ricorso al "segreto militare" per fermare l'indagine. Restano le complicità.
 Ma questo significa qualche cosa che non ha più nulla a che vedere con un attentato terroristico "islamico". Significa che uno o più organi di Stato sono stati complici, o hanno costruito essi stessi l'attentato terroristico. Cioè hanno attentato alla vita dei propri cittadini, li hanno uccisi. Non si commette un tale crimine se non per sovvertire, per dirottare il corso della politica interna, o estera, o entrambe, o l'assetto costituzionale.
Gli autori hanno dunque fatto uso della presenza di capri espiatori di religione islamica per creare un clima di odio contro gli stranieri o gl'immigrati. Ma la restrizione delle libertà e dei diritti, ottenuta in questo modo, può essere indirizzata contro i lavoratori, o i cittadini che protestano per le loro condizioni di vita. In Italia questo modo di operare è stato battezzato da gran tempo con il nome di "strategia della tensione". Negli Stati Uniti ha preso il nome di "false flag operation" (operazione sotto falsa bandiera).
 Dunque Charlie Hebdo è qualcosa di simile a un buco nero nel quale è ormai impossibile guardare in profondità. E c'è più d'un motivo, come vedremo, per pensare che anche la mattanza del 13 novembre 2015 sia un altro buco nero nel quale non potremo guardare perché ce lo impediranno. Anzi ce lo hanno già impedito, come accade in tutte le false flag operations, creando un'ondata emotiva gigantesca, non più soverchiabile mediante il ragionamento, l'analisi, il ricorso ai fatti realmente accaduti.
Tra i due buchi neri esiste una relazione? Cercheremo di capirla, se esiste, dissipando le ombre che li circondano e che si stanno già dilatando fino a oscurare tutto il panorama europeo. E già questa sola constatazione induce a più d'una riflessione. Come è possibile che l'azione di un gruppetto di giovani e giovanissimi - tutti cittadini europei, per lo più di scarso livello d'istruzione, con poca o nulla preparazione professionale e militare, già noti alla polizia per piccoli crimini, insignificanti delinquenti comuni - che hanno agito apparentemente allo scoperto, abbia potuto produrre effetti internazionali così grandi da sconvolgere non solo la vita di centinaia di milioni di persone in Europa, paralizzando tutte le maggiori capitali, ma soprattutto modificando leggi fondamentali degli Stati, regole della convivenza civile.
Nelle ricostruzioni della stampa li si è descritti come dei geni del male, mirabilmente capaci di usare tutti i vantaggi della vita quotidiana del XXI secolo; che sono riusciti a muoversi «nel fluido digitale e transnazionale mondo d'oggi , eludendo ogni sistema di sorveglianza, stabilendo contatti tra di loro, trasportando ingenti quantità di armi e di munizioni, pianificando le loro azioni in un modo impeccabile».[2]
 Trascuriamo l'enfasi retorica di queste quasi esaltanti (per i terroristi) narrazioni. C'è qualcosa di stranamente incongruo in questo tipo di ricostruzioni giornalistiche che, per altro, dilaga e gronda da tutti i mass media del mainstream Quasi che i giornalisti ignorino l'ovvio, e cioè che i terroristi erano quasi tutti già noti alla polizia, che non sembra avere fatto nulla per fermarli.
È evidente, di primo acchito, l'analogia con il modo in cui gli eventi dell'11 settembre 2001 vennero "raccontati" al colto e all'inclita del mondo intero. Ma i giornalisti del mainstream occidentale hanno una scusa: non sapendo nulla dell'11/9 non potevano fare i confronti. Sebbene abbiano sfoderato continuamente l'analogia tra l'11/9 e il 13/11. I più anziani tra i lettori ricorderanno che i 19 terroristi musulmani dirottatori dei quattro aerei - anche loro, come questi ultimi disgraziati - riuscirono nell'impresa gigantesca di annullare le difese della massima potenza mondiale armati di temperini. Anche allora, dopo i quasi tremila morti del World Trade Center e del Pentagono, sopraggiunse il famigerato USA Patriot Act, che cancellò in sostanza alcuni articoli fondamentali della Costituzione americana [3]
Pochi compresero il nesso. Ma oggi la sproporzione tra piccola causa e immensi effetti è di nuovo talmente stridente da non poter essere occultata. L'ultimo stato di emergenza in Francia risale al maggio del 1961, quando fallì il putsch di Algeri che avrebbe dovuto portare al rovesciamento del presidente Charles De Gaulle. Il solo fatto di mettere Hollande a confronto con De Gaulle sfiora la comicità.
E entriamo nel merito dell'accaduto e del modo in cui è stato raccontato al grande pubblico europeo. Intanto ricordando che l'importante settimanale Paris Match aveva previsto l'«11 settembre francese» un mese e 11 giorni prima che avvenisse, cioè il 2 ottobre. E lo aveva fatto attraverso un'intervista con il capo del pool antiterrorismo francese, il giudice Marc Trévidic. Che aveva profetizzato: «Gli attacchi alla Francia saranno su una scala dell'ordine di grandezza dell'11/9». Si dirà che era il suo mestiere quello di fare previsioni. Ma la sua posizione, il suo incarico, davvero non gli davano strumenti e possibilità di fronteggiare una tale banda di assai improbabili strateghi del terrore?
Questa previsione non fu, del resto, l'unica e isolata. Risulta che proprio quella mattina, era in corso un'esercitazione di difesa civile che avrebbe impegnato polizia, personale medico, pompieri, nel centro di Parigi, per fare fronte alle conseguenze di un'azione terroristica su larga scala. Ne dava notizia France.info, mandando in onda la dichiarazione di tale Patrick Pelloux[4]
Circostanza doppiamente singolare, perché Pelloux impazzò una prima volta su YouTube pochi minuti dopo il massacro di gennaio, per essere stato sul luogo della mattanza, scampato per miracolo, nella sua qualità di tecnico medico per l'emergenza. «Eravamo preparati», dice Pelloux, a novembre. Lasciando il forte sospetto che fosse stato "preparato" anche nei pressi della redazione di Charlie Hebdo, in gennaio. Ed è solo una delle tante singolarità di quel giorno fatale.
Come ha scritto, con una buona dose di sarcasmo, Roberto Quaglia, «viva le coincidenze! Perché chi ha mai detto che non possa essere una coincidenza il fatto che tutte le volte si verifichino esattamente le stesse coincidenze?» [5]
Infatti le analogie, o coincidenze, delle esercitazioni militari parallele agli attentati terroristici, sono una costante inquietante da non perdere d'occhio.
Cioè se per caso vi capiterà di sapere che è in corso, da qualche parte, un'esercitazione militare, cercate di stare alla larga: statisticamente c'è una discreta probabilità che si trasformi in un attentato terroristico.
Se si guarda appena un po' indietro nel tempo di questi quindici anni di "lotta al terrorismo internazionale", si scopre che quasi tutti gli attentati terroristici di grandi dimensioni sono stati accompagnati da esercitazioni militari che si svolgevano nello stesso giorno, in perfetta coincidenza [6].
Quello che ci rivela lo strano personaggio Patrick Pelloux è la stessa, identica storia dell'11 settembre, quello vero, del 2001. Anche allora si scoprì, a posteriori, che in quella fatidica giornata erano state concentrate (in diversi casi addirittura mutandone la data originaria, come per farle coincidere tutte nello stesso giorno) una decina di esercitazioni militari di vario tipo, tutte destinate a scongiurare un atto terroristico identico a quello che si verificò proprio in quella giornata a New York e a Washington. [7] (Non mi soffermo su un fatto del genere, accertato, documentato, ma del tutto sconosciuto al grande pubblico mondiale. Invito soltanto chi avesse qualche dubbio di leggerne con attenzione le sintesi contenute nelle note).
La stessa cosa, altrettanto identica, è stata accertata nel caso dei quattro attentati simultanei di Londra del 7 luglio 2005. In quel caso i "terroristi" parcheggiarono la macchina a Luton, per prendere il treno alla volta di Londra. Lasciando il bollo orario sul parabrezza, come se avessero in programma di tornare a casa propria, la sera, e non di finire i loro giorni facendosi esplodere in mezzo alla gente ignara. Tutti e quattro muniti di zaini , di quelli che sono in uso tra gli studenti di ogni scuola europea. Tre di questi zaini esploderanno in tre diverse stazioni della metropolitana di Londra. Il quarto zaino, quello sulle spalle del diciottenne Hasib Mir Husain, incontra una sorte leggermente diversa. Il ragazzo è salito su un autobus a due piani. Che si ferma inopinatamente su una piazzuola di sosta, in quel di Tavistock. Non è stato possibile sapere se il conducente abbia preso la decisione dopo avere sentito alla radio ciò che stava accadendo nel metro, o quali altri motivi possano averlo spinto. Fatto sta che i passeggeri dell'autobus, quelli che sopravvivranno all'esplosione, raccontano che il giovane Hasib si era messo a frugare affannosamente nel suo zaino, fino a che anch'esso, come i tre precedenti, gli esploderà in faccia provocando la quarta strage di quel giorno.
Si seppe in quello stesso pomeriggio che quella mattina era già in corso una esercitazione "di prova" che doveva permettere agli oltre 1000 partecipanti di reagire tempestivamente a un quadruplice attentato dinamitardo in quattro stazioni della metropolitana. Non è una supposizione. A riferirlo fu infatti un protagonista diretto: Peter Power, il direttore esecutivo della ditta privata, -la Visor Consultants - che stava effettuando l'esercitazione. La stupefacente rivelazione fu trasmessa la sera del 7 luglio dalla BBC Radio 5 (Live's Drivertime Program), e poco dopo in televisione sul canale ITV ma non destò l'attenzione di nessuno.

 P. Power: Alle 9:30 stamani eravamo infatti in piena esercitazione, per una società che conta più di mille persone a Londra, un'esercitazione basata su delle bombe sincronizzate e pronte a esplodere esattamente in quelle stesse stazioni della metropolitana dov'è accaduto stamattina. Mi si rizzano ancora i capelli in testa.
ITV: Per esser più chiari, avevate organizzato un esercitazione per sapere come gestire tutto ciò ed è capitato mentre conducevate tale esercitazione?
P. Power: Esatto, erano circa le 9:30 stamani. Avevamo pianificato questa esercitazione per una società, per evidenti ragioni non vi dirò il suo nome, ma sono davanti alla TV e lo sanno. Eravamo in una sala piena di gestori della crisi che si incontravano per la prima volta. In cinque minuti abbiamo realizzato che quel che succedeva era vero e abbiamo attivato le procedure di gestione della crisi in modo da passare dalla riflessione lenta alla riflessione rapida, e così via.
Poi, per oltre tre anni, sulla rivelazione cadde il silenzio. Solo nel 2008, precisamente il 3 settembre, Peter Power ci ritornò sopra in una conversazione sul J7 Blog Post, e poi ancora il 3 ottobre, con molti particolari. Non risulta che sia mai stato interrogato dagli inquirenti britannici, evidentemente non meno "distratti" dei francesi che condussero le indagini sui due attentati parigini del 2015[8]
Non meno singolare coincidenza fu quella che si verificò nell'attentato della maratona di Boston il 15 aprile 2013. Anche in quel caso si scoprì, nel mutismo generale dei media, che c'era stata in contemporanea una esercitazione di presunta difesa civile. In uno dei filmati che il web mise quasi immediatamente in circolazione apparivano ingranditi due dispacci del Boston Globe, che, uno dietro l'altro, pochi minuti prima della tragedia, raccontavano una notizia sconvolgente: «La polizia effettuerà una esplosione controllata al n. 600 di Boylston Street». E, pochi minuti prima di questo, un altro dispaccio citava funzionari di polizia che annunciavano una «esplosione controllata, tra un minuto, di fronte alla biblioteca, come parte delle attività di una squadra di artificieri».
In altri termini la polizia di Boston effettuava esplosioni "controllate" nel bel mezzo di una manifestazione sportiva piena di gente e in contemporanea con un attentato terroristico dove esplodeva, sul serio, una bomba in mezzo alla gente[9] 
Dove non si riesce a scegliere se fossero più stupidi coloro che inventarono una tale imbecille operazione o i giornalisti che la trovarono normale, o i magistrati che la ignorarono.
Anche in questo caso il mainstream (americano e, sulla sua scorta, anche quello mondiale) si bevve con gusto il brodino delle versioni ufficiali, esattamente com'era accaduto con la storia dell'antrace subito dopo l'11 settembre 2001, escludendo da ogni verifica le vertiginose incongruenze delle ricostruzioni poliziesche. Anche in quel caso, di Boston, uno dei due presunti attentatori (di cui fu subito sottolineata l'origine cecena, sebbene entrambi i ragazzi avessero avuto contatti assai sporadici con la madre, che ancora viveva a Grozny) venne ucciso, mentre "opponeva resistenza", nelle ore immediatamente successive, sebbene siano ancora visibili, sul web, le immagini che mostrano il suo arresto, mentre viene fatto salire su un'auto della polizia, completamente nudo e ammanettato. E emerse che anche lui era sotto controllo della polizia da parecchio tempo. Il fratello minore è seppellito nelle prigioni americane e non potrà più parlare per il resto dei suoi giorni.
Nessuno riuscì a escogitare le motivazioni che avrebbero spinto i due "capri espiatori" a compiere quel gesto. Esiste, in compenso, un'impressionante documentazione fotografica che mostra la presenza, sul luogo dell'esplosione, in mezzo alla folla, di un gruppo paramilitare denominato Craft International, facilmente identificabile per abbigliamento e distintivi, che ha per emblema un teschio e per aforisma identificativo il seguente: "La violenza risolve i problemi". Il gruppo compare all'inizio dotato di zaini neri e, alla fine, gli zaini non ci sono più, mentre i corpulenti giovanotti della Craft International salgono tranquilli su un furgone nero. [10]
La storia e la cronaca di questi ultimi 15 anni ci autorizza, come minimo, alla diffidenza. Ma, tornando ai tragici eventi parigini del 2015, non si può evitare di raccogliere alcune altre "stranezze" inspiegabili (cioè a cui è difficile dare risposta anche prestando piena fiducia ai racconti ufficiali e ufficiosi elargiti al grande pubblico). Si tratta per lo più d'informazioni che si possono trovare solo sul web. Il quale, pur essendo luogo aperto a ogni fantasticheria, manipolazione, provocazione, contiene anche una parte rilevante di dati che è possibile, con qualche ingegno, andare a verificare e che, proprio per questo motivo, il mainstream ignora pervicacemente. Si veda, ad esempio, il ruolo giocato da uno dei santuari di Internet, Wikipedia. Che questa volta supera se stesso. Infatti chi fosse andato su Wikipedia la sera del 13 novembre 2015 vi avrebbe trovato, alle 23:06, uno scritto che riferiva che «il Presidente francese ha dichiarato lo stato di emergenza e chiuso i confini dell'intera Francia». Sfortunatamente la dichiarazione di Hollande sarà resa pubblica soltanto alle 23:58, cioè 52 minuti dopo la pubblicazione di Wikipedia.
L'autore dell'articolo è anonimo, ma ha un numero che lo tradisce (e permetterebbe di identificarlo). Il numero è 82.45.236.70. Non risulta che gl'inquirenti siano andati a cercarlo e a interrogarlo, ma si ha ragione di dubitare di questa eventualità. Eppure sarebbe interessante risalire alla sua identità, visto che costui o costei sembra conoscesse in anticipo molte cose che sarebbero accadute quella sera. Non tutte ma molte. Probabilmente troppe. Costui o costei lavorò (lavorarono?) freneticamente per diffondere informazioni sull'attentato terroristico praticamente in tempo reale. Il massacro comincia alle ore 21:16. Se si va a leggere il primo dispaccio, delle 23:06, si scopre che il fantomatico scrittore è un "giornalista" straordinario che non solo riesce a dare in anticipo il testo di una dichiarazione esatta del Presidente francese, ma che, in due ore e 50 minuti, fornisce una descrizione degli eventi con tutta una serie di particolari che nessun organo d'informazione, nessuna agenzia, nessun resoconto radiofonico aveva ancora registrato. Forniranno al pubblico di Wikipedia, tra le 23:06 e la mezzanotte del 14 novembre, ben 13 aggiornamenti di ciò che stava avvenendo a Parigi in quelle ore.
Ma - altro evento singolare all'interno di un evento straordinario - alle ore 00:00 tutti i 13 aggiornamenti vengono cancellati e spariscono dalla pagina. Forse qualcuno si è accorto che il presidente francese aveva parlato "dopo" Wikipedia. Ma sarebbe bastato cancellare il dispaccio delle 23:06. Perché tutti e 13? Forse perché anche gli altri erano usciti troppo presto? O forse perché lo scopo era già stato raggiunto e non si voleva lasciare tracce? In ogni caso resta la domanda: perché lo fecero? Non è dato saperlo. Forse il loro scopo era semplicemente quello di usare l'autorità riconosciuta di Wikipedia per diffondere una determinata narrazione dell'evento, anticipando in pratica tutte le maggiori fonti d'informazione. Cioè "orientandole". E noi non sapremmo niente di tutto ciò se non fosse che qualcuno stava seguendo questo movimento di comunicazioni "anticipate" e, essendosi incuriosito, fece un back-up completo delle 13 versioni e ce le ha restituite intatte, per la nostra riflessione. [11]
Dove si trovassero in quelle ore i signori e le signore che portano all'indirizzo IP/nome utente 82.45.236.70 non possiamo saperlo. Perché abbiano fornito questo servizio e poi lo abbiano cancellato è mistero ancora più fitto. L'unica cosa che si ricava dalla lettura dei 13 dispacci, poi cancellati, è che tutti insieme forniscono una versione precisissima, "arabo-musulmana", di ciò che è accaduto: i mostri che si aggirano per le strade di Parigi sono terroristi, suicidi, siriani, islamici. Per fermarli occorre lo stato d'emergenza. La sorpresa è assoluta, impossibile prevedere una cosa del genere. Nient'altro: è ora di piangere i morti, di dare sfogo a paura e dolore. La mattina del 14 novembre sarà questo il Leitmotiv del mainstream mondiale.
Solo che, come già stiamo vedendo, in questa sintesi estrema molte cose non quadrano. Basterebbe aggiungere all'elenco gli avvertimenti, le anticipazioni, le soffiate, gli allarmi delle ultime ore, e dovremmo concludere che solo degli irrimediabili distratti o dei totali incapaci avrebbero potuto non avvertire puzzo di bruciato. Tanto più che - come s'è visto - gli stessi inquirenti, la magistratura, le forze dell'ordine, i servizi segreti, non solo quelli francesi, avevano addirittura proclamato urbi et orbi il pericolo imminente. Come interpretare, infatti l'allarme bomba che, quella stessa mattina del 13 novembre, fece sgomberare in tutta fretta la Gare de Lyon? E quello che, simultaneamente, fece sgomberare l'albergo in cui alloggiava la squadra di calcio della nazionale tedesca che doveva giocare quella sera contro la nazionale francese? Mettiamoci anche il reporter di Abu Dhabi Sports che, parlando dai bordi del campo poco prima dell'inizio della partita, riferisce che le autorità francesi hanno ricevuto una segnalazione circa una bomba allo stadio fin dal giorno prima. Perfino lui sapeva che qualcosa stava andando storto quella sera [12].
Del resto, sempre a proposito di stranezze stupefacenti, era dalla metà di agosto che l'allarme era stato lanciato e che l'allarme riguardava anche e specificamente il Bataclan, la "salle de spectacles" dove avvenne il grosso della strage. Lo rivela il già citato monsieur Trevidic, che è ora vice presidente dell'Alta Corte di Lilla, dopo avere interrogato un certo Reda Hame, arrestato dopo il suo ritorno dalla Siria. Doveva incontrarsi con Abdelhamid Abaaoud, ma sicuramente era molto ciarliero. Infatti rivela al magistrato che «il bersaglio più concreto di una prossimo attentato terroristico sarebbe stato una sala di concerti rock a Parigi». Il Bataclan, emerge, era stato indicato come un possibile obiettivo terroristico «almeno due volte in precedenza» [13]. E fa tre.
Poi la tragedia, per molti, troppi, quasi tutti giovani e giovanissimi, uccisi. Sebbene il bilancio dei morti resti, al momento attuale, assai poco chiaro, così come del tutto misterioso è il bilancio e le caratteristiche della liquidazione della squadra di assassini.
Ma è il racconto che non quadra, che contiene troppi tasselli inspiegabili. E una sola fonte: quella della polizia e dei servizi segreti. I giornalisti hanno scritto e detto molto: purtroppo nessuno di loro ha visto niente. Dall'inizio alla fine. E quello che riferiscono, sulle colonne dei giornali, dai canali radio e televisivi, è la confusa ridda di versioni ufficiali, poi quelle di seconda, terza, quarta mano, nessuna delle quali è verificabile, ma tutte assunte come credibili, anzi certe.
Poi ci sono le invenzioni vere e proprie, come quella, invero comica, del "terrorismo delle freccette", in base alla quale Abaaoud avrebbe mandato i suoi uomini allo sbaraglio, nei mesi precedenti, tirando al bersaglio una serie di dardi, a casaccio, fino a che uno sarebbe arrivato a segno. [14] 
Cioè il capo del sanguinoso complotto, l'ovviamente defunto e dunque non più in grado di confermare o smentire, sarebbe stato "sotto una crescente pressione per realizzare qualche cosa di grosso".
Pressione da parte di chi? C'era qualcuno che tirava le fila? Chi era?
La risposta a queste domande non c'è, dunque tutta la complessa operazione, e le sue gigantesche conseguenze, sarebbero il frutto della mente e dell'organizzazione di uno sprovveduto, vanaglorioso delinquentello, che avrebbe passato mesi a "tirare le freccette" fino a che una, almeno una, andasse a segno. Una di queste "freccette" sarebbe stata l'azione del 26-enne di origine marocchina, Ayoub el Khazzani, che in agosto emerse dalla toilette di un treno ad alta velocità diretto a Parigi, armato di un kalashnikov , solo per essere disarmato, senza avere sparato nemmeno un colpo, da tre provvidenziali passeggeri americani. Insomma Abaaoud stava andando a casaccio, sempre che fosse lui a guidare l'impresa. E, dato il suo comportamento altamente stravagante (sempre secondo le fonti di polizia o di altri esperti militari chiamati in soccorso dai giornalisti per spiegare l'inspiegabile), non è escluso che il giovanotto fosse in un qualche stato di inquietudine.
Chi è la fonte di questa informazione? Un certo Louis Caprioli, ex vicecapo dell'unità antiterroristica interna francese. «Tutto in questo 2015 era fino ad ora andato male -dice Caprioli - fallimenti, imbarazzanti fallimenti». E Charlie Hebdo? Un indubbio successo del terrorismo, appunto nel 2015. Ma evidentemente Abaaoud non era di quella partita. Poi verrà il salto di qualità del 13/11, cioè il passaggio da un kalashnikov che non spara un colpo, a una squadra di "almeno nove" killer. In realtà parecchi di più.
Se poi si esamina quello che sappiamo del capo di questi tre commandos, appunto Abdelhamid Abaaoud, ne viene fuori un quadro sconcertante. Quasi tutti i resoconti, o racconti, lo descrivono come un "soldato di fanteria", divenuto - non si sa come - "colonnello nella gerarchia dello Stato Islamico".
Quando arrivò la prima volta in Siria "fu incaricato di raccogliere i corpi dei soldati morti in battaglia" e, specificamente, di "svuotare le loro tasche". Aveva certo una predilezione per lo spettacolo. Apparve più volte sulla rivista online della jihad, Dabiq, qualche volta mostrandosi sghignazzante mentre scaricava cadaveri da un pick-up, qualche volta sfottendo i servizi segreti che non erano riusciti a rintracciarlo mentre passava attraverso le frontiere europee, qualche altra volta minacciando attentati.
Secondo David Thomson, autore di un volume sui jihadisti francesi, Abaaoud "era considerato niente di speciale". Ciò che sembra qualificarlo come qualcuno che se la cavava meglio pare sia stata la sua abilità nello sfuggire ai controlli. Una delle imprese più eclatanti fu il 20 gennaio 2014 quando portò con sé il fratello tredicenne Younes, verso la Siria. Furono fermati al controllo passaporti. Infatti Abaaoud era sulla lista dei ricercati [15]
Ma Abaaoud dichiara che lui e il fratello stanno andando a visitare la famiglia in Turchia e vengono lasciati passare.
Dove è difficile dire se è più incredibile il comportamento delle autorità francesi di polizia, e di quelle belghe, oppure quello dello stesso Abaaoud che si espone al rischio di essere arrestato con tanta totale incoscienza e mancanza di accortezza. Siamo di fronte al ritratto collettivo di polizie ripetutamente incapaci, con al centro un terrorista "islamico" piuttosto balordo, che rischia di farsi prendere ripetutamente per totale incoscienza. A meno che fosse sicuro che non lo avrebbero preso fino a missione compiuta.
C'è da chiedersi come mai i giornalisti che hanno scritto questi resoconti non siano stati in grado di formulare essi stessi gl'interrogativi che qui balzano agli occhi. Siamo di fronte a colleghi che sembra siano stati privati del beneficio del dubbio. Cosa che, probabilmente, influirà positivamente sulle loro carriere giornalistiche [16].
Ma questo è un altro discorso, che riguarda la Grande Fabbrica dei Sogni e delle Menzogne. Colpisce, tra le molte altre inquietanti sorprese, il fatto che in pratica esiste una sola foto dell'interno del Bataclan dopo il massacro. Stranezza oltre ogni immaginazione nel tempo moderno dove ormai tutti - e sicuramente tutti coloro che erano andati a sentire il concerto - hanno in tasca un cellulare in grado di fotografare e filmare. Siamo ormai abituati a vedere immagini raccapriccianti fotografate e filmate dagli stessi protagonisti, nelle condizioni più impensabili e drammatiche. Possibile che nessuno delle centinaia di sopravvissuti abbia fatto altrettanto? Certo nessuno poteva fotografare al buio e durante la sparatoria. Ma una volta finita la mattanza e l'ingresso della polizia, nessuno ha pensato di fissare ciò che stava vedendo?
In uno dei pochi filmati, quello girato con il cellulare dalla finestra del vicolo adiacente da un testimone, è possibile vedere, tra i corpi dei morti che giacciono a terra accanto all'uscita laterale del locale, uno dei feriti che accende il suo cellulare e cerca di comunicare, forse con un amico o un familiare, la sua situazione. Cerca soccorso, mentre ancora risuonano alcuni spari, radi, provenienti dall'interno. Possibile che nessuno dei sopravvissuti abbia fatto altrettanto? Strano.
Eppure una ricerca su Google rivela che effettivamente queste foto non ci sono. E l'unica che a quanto pare esiste, è di una stranezza assoluta. Con una lunga striscia rossa curvilinea sul pavimento, che sembra stata fatta trascinando qualche oggetto imbrattato di rosso, largo circa un metro, attorno ai corpi dei morti (cioè quei cadaveri erano già per terra, in quelle posizioni, e chi ha disegnato quelle strisce rosse lo ha fatto "attorno" ai loro corpi). Mentre molti cadaveri delle circa 15 vittime visibili nella foto appaiono stranamente privi di chiazze di sangue [17].
Ma la faccenda dell'"unica foto" diventa ancora più complicata qualche mese dopo, quando un giornalista francese, Hicham Hamza, viene arrestato e incriminato ufficialmente per "violazione del segreto istruttorio e diffusione di immagini gravemente lesive della dignità umana". Hamza scrive per un sito, www.panamza.com, che già aveva accuratamente passato al setaccio la faccenda di Charlie Hebdo. Cosa ha fatto di tanto grave? Il 15 dicembre 2015 aveva diffuso quella foto dell'interno del Bataclan, scattata a quanto pare pochi minuti dopo la strage. Da chi non si sa. Il fatto è che Hamza trovò la foto su un tweet firmato "Israele News Feed" "@IsraelHatzolah". Dunque l'unica foto del Bataclan è stata resa nota da un sito israeliano. Maurizio Blondet, che ha rivelato questa circostanza per i lettori italiani, si addentra nella scoperta sollevando un masso sotto il quale molti interrogativi si muovono. «Israel Hatzolah - scrive - è praticamente la stessa cosa di United Hatzolah, una ONG israeliana di paramedici che collabora con l'esercito di Israele», e il cui presidente è Mark Gerson, un ebreo americano che fu direttore esecutivo del think-tank "Project for The New American Century" (PNAC[18].
Per chi non ha la memoria corta si trattò del centro d'irraggiamento delle idee neocon che conquistarono il governo degli Stati Uniti con George Bush Jr e con tutta la squadra che gestì la "New Pearl Harbor" dell'11 settembre 2001, e che portarono l'America a invadere l'Afghanistan e l'Irak. Dunque l'unica foto del Bataclan post massacro viene diffusa al pubblico mondiale da una fonte israeliana collusa con i neocon [19]
Ma Blondet procede oltre. Il Bataclan apparteneva, fin dal lontano 1976 alla famiglia ebraica Toutou, e venne venduto l'11 settembre 2015, cioè due mesi prima della strage [20].
I vecchi proprietari si sarebbero trasferiti in Israele subito dopo la vendita. Coincidenze, nient'altro che coincidenze, ovviamente. Solo che il Times of Israel scrisse, dopo la strage, che «i responsabili della sicurezza della comunità ebraica erano stati avvertiti in anticipo dell'imminenza di un grosso attentato terroristico» [21]
La notizia, che fu poi censurata, includeva il nome dell'autore del preavviso: il banchiere Edmund De Rotschild. Non meno strana l'intervista che Jesse Hughes, il cantante degli Eagles of Death Metal, ha rilasciato a Fox Business Network quattro mesi dopo l'attentato. In essa il cantante rivela che quella sera, "ben sei uomini addetti alla sicurezza dietro le quinte, erano inspiegabilmente assenti". Forse, aggiunge, "avevano ragioni per non venire".
I dubbi s'infittiscono. Un altro dei quali scaturisce dall'esame collettivo della squadra di macellai che ha agito la sera del 13/11. Abbiamo nove nomi, che ci sono stati forniti dalla polizia. Otto di loro sono morti. Uno è ancora in fuga mentre scrivo queste righe. Di sette conosciamo qualcosa delle loro biografie. Per esempio che erano tutti schedati. Cioè erano sotto controllo. Tutti i loro precedenti erano quelli di piccoli criminali comuni. Nessuno di loro aveva un passato di fervente credente e praticante. Solo dal 2013 in avanti alcuni di loro mostreranno un più o meno intenso feeling religioso, che li avrebbe spinti a mettersi in movimento.
Di Abdelhamid Abaaoud s'è già detto qualche cosa. È stato in carcere più volte per furto e aggressione. I due fratelli Abdeslam, Ibrahim (31 anni) e Salah (26 anni), erano proprietari, fino al 5 novembre, - cioè sette giorni prima dell'attentato - di un bar del quartiere di Molenbeek a Bruxelles, chiamato "Les Beguines", frequentato da prostitute e dove si spacciava droga. L'ex moglie di Ibrahim, Niama, parla di lui come di uno che «si faceva canne, dormiva tutto il giorno e non aveva lamentele contro l'Occidente».
Vi pare la figura di uno che, otto giorni dopo, si farà saltare in aria in un bar di Boulevard Voltaire?
Di Samy Amimour si sa che era sotto gli occhi della DGSE, l'intelligence francese, fin dal 2012. Quando lo arrestano, per tenerlo in cella d'isolamento per 86 ore, gli trovano in casa una storia dei profeti, istruzioni sulla dieta del buon credente, una copia dell'Èquipe e una di France Football. Il suo nickname è quello di un noto culturista, Samy Coleman. Dunque un culturista tifoso di calcio. Interrogato avrebbe detto di essere favorevole alla "jihad difensiva" e di non poter "nemmeno concepire il martirio". Anche lui si sarebbe fatto esplodere dentro il Bataclan all'arrivo delle forze di polizia.
Ismael Omar Mostefai era stato schedato dalla polizia addirittura del 2010, arrestato otto volte, ma dopo avere fallito al concorso per entrare in polizia.
Fouad Mohammad Aggad: era un sorvegliato speciale, di quelli che sulla scheda segnaletica hanno la "S". Precedenti per spaccio e risse. Il più innocuo della squadra era Bilal Hadfi: ventenne, denominato Billy Hood, anche lui schedato. Beveva e andava in giro molestando le ragazze.
Ce n'erano altri due, sui cui nomi veri c'è da dubitare perché avrebbero avuto passaporti falsi. Comunque non si sa nulla. Nomi fotocopia: Ahmad al Mohammad e Mohammad al Mahmoud, si dice provenienti dalla Siria, via Turchia, entrambi saltati in aria nei pressi dello Stade de France, e dunque comparse cancellate dall'oblio del perossido di acetone. Il conto è fatto.
Dei nove già nominati, cinque saranno quelli che, sempre secondo il racconto della polizia, salteranno in aria (tre presso lo stadio, cioè Hadfi, Ahmad e Mohammad; uno, Hamimour, esploso - pare-nel Bataclan; l'altro, Ibrahim Abdeslam, esplode in un bar di Boulevard Voltaire). Restano vivi in quattro, fino a questo momento. Uno di questi è Salah Abdeslam, fratello di Ibrahim, quest'ultimo già esploso al Comptoir Voltaire. La polizia informa che, dopo il massacro di Parigi, Salah torna in Belgio in macchina, insieme ad altri due passeggeri. Potrebbero essere Mostefai e Aggad, i due fucilieri del Bataclan rimasti in vita (Amimour si è ufficialmente fatto esplodere). Ma non è sicuro.
Se i due in questione sono morti dentro il Bataclan, significa che almeno altri due dei partecipanti all'operazione si sono salvati, cioè il team era più numeroso di quanto detto. Quello che è sicuro è il fatto che l'auto viene "fermata dalla polizia per ben tre volte, l'ultima il 14 novembre alle 9 del mattino, a Cambrai, ormai a 50 chilometri dal confine belga (in questi momenti qualunque guidatore con la pelle un po' scura viene fermato, spiega un avvocato degli arrestati minori) e gli agenti non trovano niente di strano nel terzetto" [22]
E veniamo ora ai tre suicidi attorno allo stadio. Ore 21:20. Primo kamikaze. Salta con la sua cintura esplosiva nei pressi della porta D dello stadio dopo che gli è stato impedito l'ingresso. Oltre a lui rimane ucciso un passante che si trovava poco distante. Ore 21:30 il secondo kamikaze esplode nei pressi di un ristorante. La vetrina risulta soltanto incrinata. Nessun morto oltre lui. Ore 22: il terzo kamikaze esplode mentre si trova all'entrata di un vicolo cieco. Come se stesse cercando di nascondersi. Bilancio di tre esplosioni: tre kamikaze uccisi e un morto. Invece che una strage in questo caso si può a ragione parlare di una "mancata strage". Lo stupore di Blondet, e il mio, viene corroborato da quello della France Presse che, citando una fonte anonima della polizia, scrive: «È incomprensibile. Un miracolo che ci siano state così poche vittime. Concretamente quel che hanno fatto (i jihadisti, ndr), a parte suicidarsi, non ha alcun senso. Se volete fare una carneficina, lo fate al momento dell'entrata o dell'uscita degli spettatori (.) qui ci sono solo dei tizi che si sono suicidati». La polizia francese è distratta, ma qualcuno ragiona. Solo che preferisce restare anonimo.
Andiamo ora a vedere cosa succede al quarto attentatore suicida. Solo le ore 21:45. Quindici minuti dopo il secondo kamikaze dello stadio e quindici minuti prima del terzo. Ibrahim Abdeslam è seduto sulla terrasse al n.253 di Boulevard Voltaire. I testimoni, padrone del locale e camerieri, ricordano che se ne sta taciturno e tranquillo. E prima di saltare per aria non grida, non inneggia al Profeta. Quando la cameriera si avvicina per prendere l'ordinazione avviene l'esplosione. Lui muore, lei, seppure gravemente ferita, rimane in vita. Bilancio al momento: quattro kamikaze morti, un solo disgraziato passante li ha accompagnati a miglior vita. L'anomalia della situazione diventa enorme. E sempre più inspiegabile, date le premesse. Tanto più che Ibrahim sarebbe stato colui che noleggiò la SEAT nera e la parcheggiò a Montreuil, lasciando al suo interno tre kalashnikov, con cinque caricatori pieni e 11 vuoti. Una cosa sconclusionata. Che se ne facevano di undici caricatori vuoti? Erano quelli del Bataclan? Ma chi ce li ha portati? In tal caso sono rimasti vivi. Doveva partecipare anche lui alle sparatorie? Ma non lo fece. Era suo compito aspettare i macellai del Bataclan e portarli fuori città? Ma allora perché si fa esplodere prima che il massacro cominci? E in quel modo, insensato come quello dei tre suicidi dello stadio?
Anche qui riemerge la sbalorditiva creduloneria dei giornalisti dei grandi organi di informazione: non ce n'è uno che metta insieme i pezzi del puzzle che ha di fronte. Possibile che a nessuno sia venuta in mente la possibilità che i quattro kamikaze siano stati fatti saltare per aria da un sistema d'innesco a distanza? Cioè che non siano stati loro a decidere il momento, a premere il pulsante fatale, ma qualcun altro (alla luce dei risultati anch'egli piuttosto sprovveduto), che si trovava da qualche altra parte?
Non si potrebbe ipotizzare che almeno qualcuno di loro non sapesse affatto di essere destinato a fare il kamikaze, ma che avesse ricevuto in dotazione un cellulare per mantenere le comunicazioni con gli altri del commando. Un cellulare in realtà riempito di esplosivo e comandato a distanza (così si spiegherebbe la debolezza delle cariche)? Ipotesi queste, niente affatto peregrine, se si ricorda quante volte, al passaggio del metal detector di un aeroporto, i sorveglianti chiedono di accendere il cellulare per vedere se è davvero un cellulare [23].
E che dire dei due cellulari ritrovati dalla polizia: uno nei pressi dello stadio, l'altro nei pressi del Bataclan? Sembra che questa banda di pasticcioni sanguinari abbia volutamente lasciato tracce per la ricostruzione degli eventi. E risulta - sempre dalle informazioni postume fornite dagl'inquirenti - che ci fossero telefonate continue che collegavano il cellulare di Abaaoud e quello di almeno uno dei kamikaze dello stadio, mentre uno del terzetto del Bataclan avrebbe comunicato, non si sa a chi, via sms, che stava per cominciare la strage. Queste le trouvailles che la polizia ha lasciato filtrare in diversi momenti delle indagini [24].
Lascio da parte molte altre informazioni, che Maurizio Blondet ha raccolto [25], dove testimoni oculari parlano di altri killer, di alta statura, di pelle bianca, arrivati a bordo di una Mercedes nera, atletici, vestiti di nero, che "sembravano militari o mercenari", efficienti e operativi nelle sparatorie contro i bar e ristoranti. O dei quattro , che "sembravano morti viventi, come fossero drogati", che se ne stettero a bordo della Polo nera con targa belga, parcheggiati non molto lontano dal Bataclan, per quasi due ore. Tanto sospetti che un avventore di un vicino locale cercò di avvertire la polizia, ma senza successo.
Fino alla conclusione della mattanza del 18 novembre, altrettanto inverosimile di tutto quanto fin qui raccontato. La polizia, la DGSE, trovano il covo di una parte dei terroristi: è nel quartiere di Saint Denis, un appartamento al terzo piano di Rue de Corbillon. Sono passati poco più di tre giorni. Sono le quattro del mattino del 18 novembre.
Il quartiere viene sgomberato e circondato da un grande schieramento di forze militari e di polizia. I terroristi non possono sfuggire. Sarebbe cruciale prenderne qualcuno vivo in modo che possa raccontare tutto quello che sa. Invece le forze di polizia lanciano l'assalto.
Comunicheranno dopo di avere sparato più di 5000 proiettili, accrescendo così il sospetto che lo scopo dell'operazione fosse di non farne uscire nessuno vivo. Dentro - risulterà - erano solo in tre. L'unica donna, la cugina di Abaaoud, Hana Ait Boulachen cercherà disperatamente, gridando, di segnalare alla polizia che lei non c'entra per niente. La polizia dirà che si è fatta esplodere, poi rettificherà dicendo che è morta nell'onda d'urto dell'esplosione con cui uno dei due uomini si è immolato.
Chi fossero ce lo racconta ancora la polizia. Di uno dei due non si conosce l'identità. Di lui è restata solo una porzione del cranio. Dell'altro invece, stando alla ricostruzione di Repubblica, già qui citata, si sa tutto. E' bastata "la falange del dito di una mano", unico "brandello di un cadavere dilaniato dall'esplosione di un giubbotto imbottito di Tatp, perossido di acetone", per ricavare che quel dito apparteneva a Abdelhamid Abaaoud. Questa volta la carica era così potente da fare fuori tre persone in un colpo solo: mica come quelle degli altri kamikaze!
Davvero era necessario sparare cinquemila proiettili? Hanno fatto tutto da soli. Sarebbe bastato aspettare il far del giorno. Così il bilancio finale della squadra di killer islamici dice che i morti ufficiali sono stati otto. I sei kamikaze hanno ucciso un solo estraneo. Tre sono fuggiti, di loro conosciamo soltanto Salah, gli altri due non sono noti. Forse coincidono con Mostefai e Aggad, usciti vivi dal Bataclan. Ma non è certo. Dei giovanotti vestiti di nero scesi da una Mercedes non c'e traccia nei racconti ufficiali. Di chi era il pezzo di cranio? Chi fu il bombarolo che preparò le cariche? Perché i cellulari lasciati a terra? Perché l'assalto del quartiere Saint Denis? I kamikaze erano "radiocomandati"? Cioè c'era qualcun altro che schiacciava i pulsanti dei detonatori? Perché non ci sono fotografie del salone del Bataclan dopo l'eccidio?
Forse sarà necessario fare di nuovo ricorso al segreto militare. Chi scrive non ha nessuna di queste risposte. Ma questo non lo priva della possibilità di formulare delle ipotesi semplici. Torno alla strage di Charlie Hebdo. Il segreto militare del ministro Cazeneuve ha fermato l'indagine quando sono emersi i contatti tra un informatore che agiva per conto dei servizi segreti francesi e il terrorista Ahmedy Coulibaly. Le polizie di tutto il mondo infiltrano i loro uomini e donne nelle organizzazioni criminali e terroristiche. E, simultaneamente usano i criminali e i terroristi che hanno intrappolato preventivamente, come strumenti per raccogliere informazioni, ricattandoli. Da qui al loro uso come attori, comparse, capri espiatori da esibire al pubblico in caso di necessità, il passo è brevissimo. Tanto più facile quando questi capri espiatori non sanno di esserlo e agiscono con la convinzione di essere eroi che lottano per la loro causa, quale che essa sia. E, tanto più sono fanatici, quanto più è possibile guidarli verso obiettivi opportunamente predisposti. Con questi mezzi si possono compiere piccole e medie provocazioni. Ma si possono anche realizzare, quando serve, grandi, colossali, sanguinose false flag operations, operazioni in cui deve sventolare agli occhi del pubblico una "falsa bandiera", mentre coloro che le hanno organizzate rimangono totalmente al coperto.
In questo caso almeno sette dei kamikaze morti nell'attacco terroristico del 13/11 erano nella condizione di ricattabilità. La libertà di movimento di cui hanno goduto suggerisce che erano anche sotto una qualche rete di sicurezza
Il compito della democrazia, se esiste, è scoprire chi costruisce queste operazioni. Il segreto militare, il segreto di Stato, al contrario, serve per proteggere i servizi dello Stato che - magari lavorando per altri Stati - deviano dai loro compiti e dai loro doveri. A meno che, come ci ha fatto ricordare Wikileaks, siano altri servizi segreti (o settori deviati), di Stati amici, che non è possibile smascherare, proprio perché ufficialmente amici, i quali organizzano la false flag operation per punirci quando diventiamo disobbedienti. Qualcuno potrebbe non sopportare che noi europei ci consideriamo "alleati ma non allineati". Neppure su questioni secondarie. Dobbiamo essere in ginocchio, sempre, altrimenti potremmo essere oggetto di "una lista di obiettivi di rappresaglia, che crei una certa sofferenza" [26].
Se le cose stanno così dobbiamo, noi europei, chiederci se siamo disposti a lasciarglielo fare.
NOTE

 [1] Avis n° 2015-09 du 18 juin 2015 (Journal Officiel de la Republique Française): contiene la notizia di una lettera del 1° giugno 2015, in cui il ministro degl'interni B. Cazeneuve si oppone a una richiesta di declassificazione di importanti documenti dell'inchiesta da parte dell'istanza dei giudici del Tribunale di Lilla. La commissione consultiva per il segreto circa la difesa nazionale, dà ragione al ministro.
Solo il 10 settembre la notizia verrà rivelata al grande pubblico dal sito francese Mediapart, dove, per la penna di Karl Laske, si saprà che l'inchiesta dei giudici francesi, Stanislas Sandrapos e Richard Foltzer, circa il percorso seguito dalle armi del defunto terrorista Coulibaly è stata fermata là dove emergevano i rapporti tra i terroristi e i servizi segreti francesi. L'inchiesta della magistratura aveva rivelato che Coulibaly acquistò le armi da un certo Claude Hermant, importatore di armi attraverso la società commerciale Seth con sede a Haubourdin, e collaboratore dei servizi segreti francesi.
 [2]  Stacy Meichtry - Joshua Robinson, "Paris Attacks Plot Was Hatched in Plain Sight", The Wall Street Journal, 27-29/11/2015.
[3] «Per la legge in questione è stato usato un acronimo orwelliano: 'USA PATRIOT Act' è la sintesi di "Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act", ossia "Legge per unire e rafforzare l'America offrendo gli strumenti adatti richiesti per intercettare e bloccare il terrorismo". Attraverso il nome è stata data una perentoria patente di patriottismo a un delicato provvedimento che in realtà sospende molte leggi di garanzia. Con un metodo ricattatorio (chi si oppone a qualcosa che si chiama Patriot diventa per definizione 'antipatriottico') l'amministrazione Bush ha subito mirato a tacitare le critiche e prevenire discussioni sugli ineluttabili abusi» (cfr. Pino Cabras, Strategie per una guerra mondiale, Aisara, 2008).
[5] ibidem, nota 4.
È interessante notare che persino in occasione della strage di Oslo del 22/07/2011, come rivelò il più importante quotidiano norvegese, Aftenposten, la scena del crimine aveva letteralmente ricalcato simulazioni in corso degli apparati di sicurezza in quella stessa giornata. Solo poche ore prima che Anders Behring Breivik iniziasse a sparare sui ragazzi di Utøya le squadre di emergenza della polizia avevano concluso un'esercitazione in cui avevano sperimentato una situazione quasi identica: «un attacco terrorista mobile nel quale l'unico obiettivo di uno o più esecutori consisteva nello sparare a quanta più gente possibile e poi nel fare fuoco sui poliziotti al loro arrivo. "Era assai simile allo schema. Così ha voluto il caso", dichiara una fonte attendibile della polizia, che ha chiesto l'anonimato». (http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=63448).


[13] R. Callimachi, K. Bennhold and L. Fourquet, " How the Paris Attackers Honed Their Assault Through Trial and Error", New York Times, 30 novembre 2015.
[14] Ibidem. Dartboard terrorism.
[15] «Era nel database di tutti i paesi europei, ma ritornò in Europa come se stesse per andare in una vacanza al Club Med». New York Times, 30/11 (frase attribuita dal NYT alla madre, anonima, di uno dei jihadisti morti nei combattimenti in Siria. C'è da dubitare, tuttavia che la madre di un terrorista adotti questo tipo di linguaggio e riferimenti turistici di questo genere).
[16] Mi riferisco specificamente a tre ricostruzioni degli eventi: 1) Wall Street Journal (27-29/11), firmata da Mathhew Dalton, Inti Landauro, Noemie Bisserbe, Mohammad Nour Alakraa, Matt Bradley, Dana Ballout, Giada Zampano, Anton Trojanovski; 2) Quella citata del New York Times (30/11), firmata da K. Callimachi, K. Bennhold, L. Fourquet; 3) La Repubblica (20/11), Con le firme di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Fabio Tonacci.

[20] http://www.timesofisrael.com/jewish-owners-recently-sold-pariss-bataclan-theater-where-is-killed-dozens/

[22] http://www.maurizioblondet.it/parigi-qualche-kamikaze-era-radiocomandato/ Devo alla ricostruzione di Maurizio Blondet, ricca di particolari e di citazioni dalle fonti francesi, gran parte dei dati riguardanti gli attentatori suicidi, e anche gran parte delle sue considerazioni successive, che considero molto convincenti.
[23] "Secondo una fonte giudiziaria - scrive il Figaro -le cinture esplosive avrebbero potuto essere azionate da telefono portatile".

[26] Wikileaks ha publicato un cablogramma che l'ambasciatore americano a Parigi inviò al Dipartimento di Stato il 14 novembre 2007. Nel quale si formula, riferendosi ai negoziati di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, la proposta di "calibrare" la lista, sia verso l'Europa intera, poiché "la responsabilità è collettiva", sia verso i "responsabili principali", cioè la Francia. Il tutto in un contesto come quello di "alleati ma non allineati". Frase che lo stesso cablogramma riferisce all'allora presidente francese Sarkozy.

Intelligence contro le ombre dell'Isis



I fatti di Bruxelles mettono in evidenza il corto circuito dei sistemi di sicurezza in Europa e soprattutto in Belgio. Dopo l'arresto di Sala Abdeslam si è gridato alla vittoria eppure in pochi giorni i terroristi si sono fatti sentire di nuovo a dimostrazione che c'è ancora molto da fare. E' lapalissiano che l'organizzazione terroristica che fa capo allo Stato islamico non può essere in grado di mettere su attentati terroristici con bombe che gli analisti riferiscono che necessitano di grande maestria nel confezionarli a causa dell'instabilità delle sostanze. I servizi mettono in guardia i Paesi dell'Unione sulla possibilità di numerosi attacchi da parte dei terroristi islamisti (non islamici, è una sottigliezza importante) in breve tempo. La domanda nasce spontanea: bastano i proventi derivanti dalla vendita di petrolio, di beni archeologici e dallo sfruttamento della prostituzione per mettere a segno "colpi" al cuore dell'Europa? No. Occorre indicare chi sono i veri nemici politici che stanno dietro il terrorismo. Bisogna fare i nomi degli Stati che finanziano questo progetto per i loro fini di dominio. Si sa chi sono. Sono gli alleati, almeno ufficialmente.Il rischio di rotture internazionali acuisce il pericolo di una precipitazione globale ma se non si chiariscono gli schieramenti di questa guerra, non riusciremo certo a costruire una strategie di difesa. È arrivato il momento di cambiare passo. Il prezzo è altissimo. Nascondere la testa sotto la sabbia non potrà scongiurare il pericolo. E' necessario agire soprattutto e non solo sul piano diplomatico. Le falle del sistema di sicurezza belga rappresentano una luce d'allarme sul piano delle strategie antiterroristiche. Bruxelles è da mesi blindatissima ma i terroristi hanno continuato a proliferare. Finora l'unica arma risultata efficace è l'intelligence. È arrivato il momento di far fare un salto al coordinamento di informazioni e operatività dei vari Paesi europei. Sicuramente costerà tanto i termini di libertà individuali di tutti. Ma è arrivato il tempo delle scelte. In Belgio, ad esempio, è illegale perquisire una abitazione privata dalle 21 alle 5 del mattino.
Aloisio

giovedì 17 marzo 2016

Le condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie nel 1860. Gli interessanti interventi di Luciano Salera e Ubaldo Sterlicchio.

A seguito della pubblicazione sul giornale on line lavoce.info di un articolessa di regime sulle condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie al momento dell'invasione Garibaldina e durante le operazioni da Marsala a Gaeta, l'amico Claudio Saltarelli ha richiesto agli studiosi della materia alcune informazioni e il loro punto di vista sulla complessa questione dell'analisi economiche in riferimento al nostro antico Regno. L'Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie è lieto di ospitare questo edificante dibattito culturale tra studiosi della materia. I primi due interventi che pubblichiamo sono quelli di Luciano Salero e di Ubaldo Sterlicchio. Un ringraziamento all'amico Claudio per aver stimolato la riflessione e a presto leggerci per altri aggiornamenti in merito.

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Ell’Egregio signor Saltarelli, 
ho letto attentamente l’articolo inviatomi e dal quale emerge un’interpretazione sui generis, in chiave economico-finanziaria, degli avvenimenti che, a seguito della spedizione di Mille, portarono alla caduta del Regno delle Due Sicilie. Non ho motivo di dubitare circa la genuinità delle fonti archivistiche dalle quali il giornalista ha attinto le notizie e sulla cui base ha articolato le sue argomentazioni. Tuttavia, a mio avviso, nello scritto in questione prevale solo ed esclusivamente il cosiddetto «senno del poi», in quanto il giornalista Luciano Canova dà per scontato che il Regno borbonico era destinato a «sgretolarsi» ed afferma che i «mercati finanziari e il debito pubblico ebbero un ruolo» e furono addirittura un «investimento nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini». E, sempre con il senno di poi, lo stesso articolista si lascia andare in affermazioni gratuite ed storicamente infondate,([1]) quale quella che «Prima dell’inizio della spedizione di Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile» e quella che «Si trattava di capire di che morte il regno dovesse morire...». A mio modesto avviso, ben altre furono le cause della caduta del Regno delle Due Sicilie, cui conseguì l’ineluttabile deprezzamento dei titoli del debito pubblico borbonico che, al termine della parabola discendente naturalmente legata agli eventi negativi dell’invasione garibaldino-sabauda, come si evince dal grafico annesso all’articolo in esame, si «allinearono al ribasso» (e non poteva essere altrimenti!) proprio con i titoli piemontesi. Infatti, fino alla prima metà del 1860, i titoli di Stato delle Due Sicilie godevano ottima salute; prova ne sia che - oltre ad avere una rendita consolidata del 5% - alla Borsa di Parigi quotavano il 20% in più rispetto al loro valore nominale. Al contrario quelli del debito pubblico piemontese quotavano il 30% in meno. Esisteva, cioè, una forbice (adesso si chiama spread?!?) di ben 50 punti percentuali, quotando quelli delle Due Sicilie al 120% (eccellente quotazione questa che il Canova, ingiustificatamente, attribuisce ad una «bolla speculativa») e quelli del Piemonte al 70% del loro valore nominale. È sufficiente consultare al riguardo gli scritti di Giacomo Savarese per rendersi conto dell’abissale divario qualitativo e quantitativo esistente, all’atto dell’invasione del Sud, fra le finanze napoletane e quelle piemontesi, in favore delle prime.([2]) Quello dell’unità d’Italia fu, quindi, solo un vergognoso pretesto, utilizzato dall’usurpatore Vittorio Emanuele II di Savoia e dall’«arcicospiratore» suo primo ministro,([3]) per cacciare i legittimi sovrani e saccheggiare le ricchezze degli altri Stati della Penisola (in primis, quelle del florido Regno delle Due Sicilie), onde evitare la bancarotta del misero e fallimentare Piemonte che, all’epoca, era indebitato fino al collo, a causa delle gravosissime spese sostenute per la dissennata politica militarista e guerrafondaia del megalomane Cavour.([4]) Basti pensare che, per sola spedizione in Crimea (che comportò l’invio di 18 mila uomini, dei quali 14 morirono in combattimento alla Cernaia e 1.300 a causa di un’epidemia di colera), fu necessario ottenere in prestito dalle banche inglesi 1 milione di sterline; contratto nel 1855 dal Piemonte, il debito (comprensivo dei relativi interessi) verrà estinto solo nel 1902 ed a spese di tutti i contribuenti italiani.([5]) Durante il solo anno 1859, mentre il Regno di Napoli aumentava gli interessi del suo debito pubblico di 5.210.731 lire, il Piemonte aumentava gli interessi del suo debito pubblico di 58.611.470 lire: più del decuplo di quelli napoletani.([6]

Il grafico annesso all’articolo in oggetto evidenzia, invece, un altro aspetto cruciale e cioè che sul Regno delle Due Sicilie, già condannato a morte dalle due grandi potenze capitalistico-massonico-liberali dell’epoca (Inghilterra e Francia), durante la «piratesca» avventura garibaldina e la «barbarica» invasione sabaudo-pimontese, si abbatté anche la speculazione finanziaria dei Rothschild e dei loro degni compari europei. Ma è altrettanto facile intuire che, in caso di vittoria borbonica, questa speculazione non avrebbe avuto successo alcuno, in quanto la solidissima economia del Regno del Sud era senz’altro potenzialmente idonea a reggere con efficacia quest’urto speculativo. L’anno 1859 si era, infatti, chiuso con la seguente situazione finanziaria: 
- debito pubblico del Regno di Napoli 411.475.000 lire 
- debito pubblico del Regno di Piemonte 1.121.430.000 lire 
ed, atteso che il primo contava una popolazione media residente di 6.970.018 abitanti ed il Piemonte di 4.282.553 abitanti, il debito pro capite era pari a 59,03 lire per un napoletano ed a 261,86 lire per un piemontese; vale a dire che il Regno dei Savoia era oberato da un debito pubblico 4 volte superiore a quello dello Stato dei Borbone! 
Nel Regno di Sardegna «...ci fu un indebitamento colossale, coprire un debito con un altro debito, pagare una rata d’interessi facendo ancora un debito era diventato il sistema di governo: tra il 1849 ed il 1858 il Piemonte contrasse all’estero, principalmente con il banchiere James Rothschild, debiti per 522 milioni - quattro annate di entrate fiscali. Si sostiene che lo Stato sabaudo si piegò alla necessità della unità nazionale e si aggiunge che è doveroso essere grati ai Savoia; di certo - di storico - c’è solo il fatto che il Regno di Sardegna se la cavò riversando i suoi debiti sul resto dell’Italia autoannessasi».([7]
Gli avvenimenti del 1860, dal 1 gennaio sino al 7 settembre (giorno dell’ingresso di Garibaldi in Napoli), costarono al Regno delle Due Sicilie la somma di 55.248.618,79 lire, mentre il Piemonte, in quello stesso anno, aumentava il suo debito di altri 150 milioni di lire. Seguiva l’anno 1861 ed il Regno d’Italia s’inaugurava a Torino con un altro debito di 500 milioni di lire. A questa cifra andò ad aggiungersi il disavanzo che, dal 7 settembre 1860 al 31 dicembre 1861, fu accumulato di governi dittatoriale garibaldino, prima, e luogotenenziale sabaudo, dopo, pari a 127.496.812 lire.([8]
A conti fatti, alla fine dell’anno 1861, il debito pubblico piemontese aveva raggiunto i 2 mila milioni di lire, una cifra astronomica per quei tempi, specialmente per un piccolo Stato come il Piemonte.([9]) Inoltre, al Sud, con un terzo della totale popolazione italiana, circolava il doppio di moneta che nel resto d’Italia messo insieme.([10]) In particolare, al momento dell’annessione, le Due Sicilie possedevano 443.200.000 di lire-oro, mentre tutti gli altri Stati pre-unitari insieme ne avevano 225.200.000; il Regno di Sardegna, in particolare, possedeva appena 27.000.000 di lire-oro. Ma c’è di più. Nel Regno di Piemonte, le riserve auree garantivano solamente un terzo della carta-moneta circolante (vale a dire che 3 lire di carta valevano 1 sola lira d’oro); nelle Due Sicilie, invece, venivano emesse principalmente monete d’oro e d’argento, e le riserve coprivano interamente quel poco di valuta cartacea ivi esistente.([11]) La valuta piemontese era, quindi, carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura: una moneta borbonica aveva un suo valore intrinseco, in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale. In parole povere, mentre il Regno delle Due Sicilie era pieno di soldi, il Piemonte era pieno di debiti, tanto che, senza tema di smentita, possiamo affermare che l’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’Unità d’Italia.([12]) E solamente da questo punto di vista la spedizione dei mille può essere considerata come un... «investimento» per i piemontesi! Oltremodo appropriata appare la colorita affermazione di Giacinto de’ Sivo: «...Torino fe’ debiti per 24 volte più di noi... e Torino, più non avendo da mangiare, venne a mangiar Napoli».([13]) Infatti, «senza il saccheggio del risparmio storico del Paese borbonico, l’Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnazione la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al sud avrebbe fornito 500 milioni di monete d’oro e d’argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d’emissione sarda, che in quel momento ne aveva soltanto per 100 milioni, avrebbe potuto costruire un castello di carta-moneta bancaria alto 3 miliardi...», scriveva Zitara, per poi concludere: «insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l’unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s’erano messi». In sostanza, il Sud fu costretto a pagare tutte le spese di guerra del Piemonte, anche quelle sostenute per combattere i meridionali stessi!([14]) Sotto il profilo squisitamente storico degli avvenimenti, Luciano Canova ricalca poi la solita vulgata risorgimentalista, definendo «grosso smacco per l’armata borbonica» la «vittoria comprata» di Calatafimi; nonché, parlando di «abilità tecnica» di Garibaldi, da una parte, e di «disorganizzazione delle truppe regie», dall’altra, relativamente alla conquista di Palermo. Come al solito, il Canova non conosce - o fa finta di non conoscere - la verità storica di come si svolsero effettivamente i fatti. A Calatafimi, il 15 maggio 1860, la vittoria garibaldina non fu conseguita sul campo, bensì fu «comprata» dallo stesso Garibaldi, il quale aveva preventivamente corrotto il generale borbonico Francesco Landi; la qual cosa spiega anche l’ostentata sicurezza con la quale il nizzardo affermò: «Bixio, qui si fa l’Italia o si muore», in quanto era ben sicuro di... non morire! Infatti, proprio allorquando le truppe borboniche stavano sgominando i garibaldini con un battaglione (quattro compagnie) dell’8° Cacciatori al comando del maggiore Michele Sforza, vennero costrette a ritirarsi per ordine del generale Landi. Il giorno 17 maggio, il Landi, dopo aver fatto fare inutili giri alle truppe, si ritirò incomprensibilmente in Palermo. Il comportamento del Landi diventerà comprensibilissimo allorquando si scoprirà che lo stesso aveva ricevuto da emissari di Garibaldi una fede di credito (documento simile agli odierni assegni) di 14.000 ducati (valutabile in circa 700.000 euro attuali!) come prezzo del suo tradimento. Il Landi fu quindi sostituito nel comando dal generale Ferdinando Lanza, un altro traditore! Costui, infatti, pur disponendo di ben 25.000 uomini addestrati e ben equipaggiati, li rinchiuse nei forti di Quattroventi, Palazzo, Castellammare e Finanze, lasciando a presidio degli ingressi di Palermo solamente 260 reclute. Garibaldi, pertanto, nella notte fra il 26 ed il 27 maggio, assalì la città ed ebbe gioco facile sulle esigua guarnigione posta a difesa. Il 20 luglio si ebbe lo scontro di Milazzo, dove il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco (che non era nel libro paga dei piemontesi!) mise in difficoltà i garibaldini comandati da Giacomo Medici, subito soccorso dallo stesso Garibaldi. Ma i garibaldini disponevano di abbondante artiglieria, di posizioni favorevoli e dell’appoggio dal mare della nave «Tucköry», la ex corvetta borbonica «Veloce» comandata dall’ammiraglio Amilcare Anguissola (un altro traditore passato dalla parte dei garibaldini). Il colonnello del Bosco resistette a tutti gli attacchi; tuttavia, i valorosi soldati napoletani, per il mancato invio dei necessari rinforzi da parte del generale Clary (un altro ufficiale borbonico vendutosi al nemico!), di fronte ad un numero preponderante di circa 10.000 assalitori, furono costretti a ritirarsi nel Forte di Milazzo. Come ben si può vedere, i mercati finanziari e il debito pubblico napoletano non ebbero, pertanto, alcun ruolo «nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini», ma si verificò l’esatto contrario. I rovesci subiti dall’esercito borbonico furono, infatti, determinati tutti dal tradimento dei generali (cosa che nulla ha a che vedere con il c.d. spread), mentre la perdita di valore dei titoli di Stato delle Due Sicilie è stata la naturale conseguenza, soprattutto, delle ruberie che la nostra terra ha subito a seguito della calata dal nord dei barbari invasori e della successiva fusione del debito pubblico napoletano con quello piemontese. Come abbiamo visto, quest’ultimo era ben 4 volte superiore a quello delle Due Sicilie e, con l’unificazione politico-territoriale della Penisola, il debito pubblico degli Stati pre-unitari confluì in quello del Regno d’Italia e tutti i relativi titoli si «allinearono», ob torto collo, con i titoli piemontesi che, già nel 1859, quotavano intorno al 70% del valore nominale! Pertanto, a seguito della fusione, i meridionali dovettero pagare anche il debito pubblico piemontese che, come abbiamo già avuto modo di vedere, era 4 volte superiore a quello delle Due Sicilie.([15]) Dalla tabella annessa all’articolo del Canova, si rileva infatti che, durante tutto il 1860, il titolo napoletano non risulta aver toccato nemmeno i 75 punti percentuali e che quindi aveva mantenuto comunque valori più alti di quello piemontese. Bastarono appena sessanta giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Regno borbonico; nel giro di due mesi, infatti, le casse dello Stato napoletano vennero vuotate. Mai nel corso della sua millenaria storia, l’Italia aveva «veduto ladrocini simili a quelli che si ebbero a Napoli durante il periodo garibaldino... Nella capitale del Sud l’eroe dei due mondi, o dei due milioni, trovò denaro in abbondanza, e lo usò in modo sconsiderato, mentre i suoi seguaci si appropriarono indebitamente delle consistenti ricchezze personali di Francesco II e della dote di Maria Sofia. [...] Furono rubati tutti denari depositati nelle banche, tutti i preziosi custoditi nei musei, le opere d’arte nei palazzi reali e nobiliari, le armi negli arsenali e finanche beni personali nelle private residenze di molti cittadini».([16]) Ascoltiamo, a tale riguardo, due incontrovertibili testimonianze: quella di Vittorio Emanuele II, il quale, subito dopo l’incontro di Teano, così scrisse a Cavour: «...come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa...»;([17]) e quella di Francesco Guglianetti, segretario generale presso il ministero dell’Interno piemontese, il quale, riferendosi ai garibaldini che avevano approfittato della situazione, scris-se a Farini di aver saputo «da persona autorevole che parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche piene di biglietti da mille lire».([18]) Purtroppo, le prove documentali contabili di tutti quegli orrendi sperperi, di tutti i soldi rubati ai Borbone e poi scialacquati in modo vergognoso ed inetto, finirono nelle profondità del mare delle Bocche di Capri, insieme al piroscafo Ercole ed al povero, ma onesto, poeta amministratore dei Mille, Ippolito Nievo. Si trattò del primo «delitto di stato» della nuova Italia Una. A questo punto, appare ben chiaro quali furono le cause effettive del deprezzamento dei titoli di Stato delle Due Sicilie e veramente «fantasiosa» sembra poi l’affermazione dell’articolista secondo il quale «è un po’ come se Garibaldi avesse detto “obbedisco!” non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild», finanzieri che forse il nizzardo non conosceva nemmeno. Al contrario, costui conosceva molto bene gli ambienti della massoneria internazionale ed, in particolare, di quella inglese, nel cui ambito furono raccolti ben 3 milioni di franchi-oro (convertiti poi in 1 milione di piastre turche) per finanziare la spedizione dei Mille. Questo enorme quantitativo di denaro (del valore di oltre 20 milioni di euro attuali), unitamente a quello rapinato presso i banchi di Palermo e di Napoli servirono per corrompere generali, ammiragli, politici ed alti dignitari del Regno delle Due Sicilie, nonché per riempire le tasche degli stessi garibaldini e dei loro amici. Ma le ruberie ai danni delle Due Sicilie non terminarono con l’unificazione. A causa delle continue guerre che i savoiardi combattevano, anche quel simulacro di convertibilità in oro andò a farsi benedire, a tal punto che, ancor prima dello stesso 1861 la «carta-moneta» piemontese era diventata «carta-straccia» a causa dell’emissione incontrollata che se ne fece.([19]) Avvenuta la conquista di tutta la Penisola, i piemontesi misero le mani nelle banche degli Stati appena conquistati. La Banca nazionale degli Stati Sardi divenne, dopo qualche tempo, la Banca d’Italia. Dopo l’occupazione del Sud, fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d’oro, per trasformarle in carta-moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi del tanto bistrattato Sud avrebbero potuto emettere carta-moneta per un valore di 1.200 milioni di lire e, così facendo, sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu trasformata allora in un’attività di vero e proprio drenaggio di capitali che, dal Sud, andarono al Nord. Questa operazione fu resa possibile grazie, e soprattutto, alla famigerata e truffaldina legge sul «corso forzoso», approvata il 1 maggio 1866, attraverso la quale fu eliminata la convertibilità della moneta in oro (che, già originariamente, era nel rapporto secondo cui 3 lire di carta erano convertibili in 1 lira d’oro).([20]) Ma l’aspetto osceno fu quello di riconoscere il «principio della inconvertibilità» solo per la moneta della Banca Nazionale e non anche per quella del Banco di Napoli (suo vero competitore!), che rimase così obbligato a «dare oro in cambio di carta straccia» abbondantemente stampata dalla stessa Banca Nazionale. Il partito unitarista ebbe come slogan quello del «libero mercato», contro il «protezionismo borbonico»; ma se si fossero lasciate agire liberamente le forze del mercato, la Banca Nazionale e le sue collegate sarebbero forse fallite, lasciando il Banco di Napoli alla testa del sistema bancario italiano. Il menzionato intervento politico dello Stato sabaudo ci fu per risolvere una partita che, a livello economico, si stava mettendo malissimo per il Nord.([21]) Quell’oro, piano piano, passò nelle casse piemontesi ed, attraverso questi strumenti scorretti e disonesti, il prospero Regno delle Due Sicilie, in poco tempo, fu portato al tracollo finanziario. Questa è la vera storia e non la fantasiosa interpretazione di un grafico tabellare!!! Finanche un convinto unitarista meridionale, come Giustino Fortunato, nella lettera del 2 settembre 1899 a Pasquale Villari, affermò che: «L’unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti!». In realtà, il Regno delle Due Sicilie ed il suo popolo furono vittime di una colossale ingiustizia, perpetrata dal Piemonte con la complicità delle massime potenze massonico-liberali dell’800.([22]) In conclusione, appare davvero fuorviante giudicare l’ieri da quello che è l’oggi. Infatti, nel 1866, allorquando i titoli di Stato italiani arrivarono a valere due terzi del loro valore nominale,([23]) stando alla teoria enunciata dal signor Luciano Canova, avrebbero dovuto conseguire ineluttabilmente anche il «crollo» della dinastia savoiarda e lo «sgretolamento del Regno d’Italia»; cosa questa che, purtroppo, non c’è stata. 

Egregio signor Saltarelli, 
credo che siano sufficienti queste brevi considerazioni per chiarirci le idee e porre in luce la scarsa valenza storico-scientifica rivestita dalle argomentazioni del signor Canova. 
Io, tuttavia, dubito fortemente se valga o meno la pena di replicargli, in quanto credo che ci troveremmo di fronte al solito muro ideologico. Basta poco per capirlo. Costui, infatti, con la solita retorica risorgimentalista, parla di «scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino» e di «finanza... pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore [sic!] Savoia»; inoltre, come tutti i risorgimentalisti, comodamente seduto sul carro del vincitore, sciorina le sue opinioni ed i suoi convincimenti, pensando di essere depositario di verità assolute. Io personalmente mi asterrei, in quanto penso che il discutere con questi signori sia solamente una perdita di tempo, senza che ne consegua alcun vantaggio per la Causa. 

Tuttavia, qualora Lei voglia replicare, possiamo risentirci e concordare il da farsi. 
Gradisca i miei più cordiali saluti, Ubaldo Sterlicchio.
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Caro Saltarelli, 
non mi sopravvaluti e non si aspetti nessun tentativo di replica scientifica da parte mia per una ragione semplicissima ovvero che quanto scrive questo signore non merita riscontro perché sostiene cose talmente ovvie e scontate che non richiedono smentite. Costui, nel 1860, in pieno sfacelo del Regno (ovvero dello Stato) dimostra con tanto di grafico a supporto della difficilissima tesi che sostiene, che i titoli di stato subirono un crollo verticale! E avrei voluto vedere il contrario! Costui scopre l'acqua calda ed è come se sostenesse che uscendo di casa sotto un violentissimo temporale un povero cristo, senza ombrello, si bagna e più tempo resta esposto al diluvio più si infradicia. Questo, caro Saltarelli, non merita una risposta, merita solo di esser preso in giro, con garbo, educazione, ma con fermezza. Costui parla del crollo delle “rendite” ma evita con cura di ricordare che all'atto della cosiddetta unione (che, poi, fu annessione della peggiore specie, paragonabile ad una conquista di stampo coloniale) le Due Sicilie possedevano una riserva aurea di 445,2 milioni di lire contro i 27 del Piemonte, ridotto con le pezze al culo. Che il capitale circolante nelle Due Sicilie (sempre al tempo dell'annessione) ammontava ad oltre 20 miliardi degli attuali euro ed era più del doppio di quello di tutti gli altri Stati pre-unitari messi insieme, che, inoltre, le monete duosiciliane erano tutte coniate in metallo nobile (oro e argento) e convertibili in oro mentre in Piemonte (solo per una su tre era possibile questa operazione). E ce ne sarebbero ulteriori argomenti da citare. E questo ci viene a parlare di crollo della rendita quando prima della rendita era crollato lo Stato? Ma si rende conto caro Saltarelli? Infine se proprio gli vuol rispondere gli consigli di darsi una lettura al brevissimo quanto preciso e documentato saggio di Giacomo Savarese “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860” edito da Controcorrente, Napoli, 2003 nella collana “Biblioteca Storica” (con introduzione di Aldo Servidio) ; vi troverà una serie di interessantissime notizie che gli potranno tornare utili in seguito qualora decidesse di scrivere qualcosa di sensato sull'argomento. Poi, caro Saltarelli, se proprio vuol far ricorso a qualcosa attribuibile al sottoscritto, le ricordo (qualora lo abbia disponibile) di andarsi a rileggere alle pagine 444, 479 e 481 del mio "Garibaldi. Fauché e i predatori del Regno del Sud” quanto riporto sulla permanenza a Napoli del Commissario Governativo per le Finanze (piemontesi), Cavalier Vittorio Sacchi, inviato, appunto a Napoli, da Cavour per valutare, approfondire e studiare le tecniche e le procedure adottate dall'ormai ex Regno Napoletano in materia tributaria e di finanza pubblica. Ecco, caro Saltarelli, questi sono argomenti seri che vale la pena segnalare e, semmai, dibattere. Il resto sono soltanto chiacchiere che non significano niente perchè, oramai, i giochi erano fatti! L'Inghilterra aveva raggiunto il suo scopo grazie all'appoggio ed al denaro della Massoneria. Il Regno delle Due Sicilie era stato cancellato dalla carta geografica dell'Italia e dell'Europa. I torti da attribuire al Borbone possono essere tantissimi ma, fra questi, certo non c'è quello di non aver saputo amministrare le finanze pubbliche. Concludo (per esser certo di farmi capire, ma non da lei che mi ha capito benissimo) sarebbe come constatare, al cospetto di un palazzo crollato, il grave inconveniente della impossibilità di prendere l'ascensore! Cose da pazzi! 


Cordiali saluti. 
Luciano Salera.

NOTE

[1] La verità è che, a seguito dell’unificazione politico-territoriale della Penisola nel 1860-61, la storia di quegli avvenimenti fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i Savoia, i quali dovevano giustificare, ai contemporanei e ai posteri, l’illecita invasione del Regno delle Due Sicilie (un legittimo Stato sovrano, che non minacciava nessuno e che, per sua secolare vocazione, era in pace con tutti gli altri Stati, italiani ed europei - compreso il Regno di Sardegna - con i quali intratteneva regolari relazioni diplomatiche), avvenuta senza casus belli, cioè senza motivazioni politico-giuridiche e, cosa gravissima, senza dichiarazione di guerra. Si toccarono, in tal maniera, gli stessi infimi ed incivili livelli della pirateria (con la spedizione dei Mille) e delle invasioni barbariche (con l’aggressione piemontese), in violazione alle più elementari norme dello jus gentium. Infatti, come giustamente afferma Elena Bianchini Braglia (Cfr. Risorgimento: le radici della vergogna. Psicanalisi dell’Italia), nella storia, anche in quella più remota, anche in quella dei secoli che gli stessi liberal-massoni dell’Ottocento definivano oscuri e barbari, mai nessuna guerra fu reputata legittima senza essere sorretta dall’atto formale della sua dichiarazione. Prima che un esercito invadesse uno Stato, occorreva che un previo documento denunciasse motivazioni, eventuali colpe commesse, eventuali atti di riparazione chiesti, e annunciasse un intervento armato solo qualora questi non venissero concordati. Questa era la «barbarie dei secoli oscuri». La civiltà dei secoli illuminati, invece, ammette che un esercito attacchi e vada ad occupare terre altrui senza alcuna motivazione o preavviso... E tutti risorgimentalisti, a cose fatte, si beano nell’attribuire al «genio» di Cavour & compari meriti mai avuti. Vedansi anche gli apprezzamenti di Patrick Keyes O’ Clery nella seguente nota 3.
[2] Giacomo Savarese, “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, 1862, a cura di Aldo Servidio e Silvio Vitale, Controcorrente, Napoli, 2003.
[3] «Amanti della Verità qual siamo, non abbiamo altro obiettivo che dissipare la nuvola di pregiudizio e di inganno che ha, fin qui, oscurato la narrazione di quegli eventi agli occhi di molti che ne condannerebbero come noi gli autori, se conoscessero il vero carattere della rivoluzione che ha creato la cosiddetta unità d’Italia. Noi la giudicheremo non dalle invettive dei suoi nemici, ma dalle confessioni degli amici, molti di loro complici ed alleati dell’arcicospiratore Cavour. Una cosa chiediamo che ci sia riconosciuta: il principio da cui siamo partiti e cioè che la falsità non diventa verità perché asserita da uno statista o da un re, e che il furto non cessa di essere disonesto e disonorevole quando il bottino è un intero Regno». Così Patrick Keyes O’ Clery, in “La rivoluzione italiana. Così fu fatta l’unità della nazione”, trad. it. Ares, Milano, 2000.
[4] Pier Carlo Boggio, deputato piemontese, nel suo Pamphlet “Fra un mese”, pubblicato nel 1859; cfr. Angela Pellicciari, “I panni sporchi dei Mille”, Liberal, Roma, 2003, pag. 146.
[5] Gigi Di Fiore, Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del risorgimento”, Rizzoli, Milano, 2007, pagg. 58-59.
[6] Giacomo Savarese, op.cit., pag. 26.
[7] Nicola Zitara, “L’unità truffaldina”, www.nazionali.org , 11 settembre 2009.
[8] Giacomo Savarese, op.cit., pag. 38.
[9] Dalla lectio dedicata a Marco Minghetti, tenuta dall’economista liberale Vito Tanzi (ex direttore del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo Monetario Internazionale dal 1981 al 2000; consulente della Banca Mondiale, nonché sottosegretario all’Economia dal 2001 al 2003) il 25 ottobre 2011 presso la Fondazione CRT di Torino su “150 anni di finanza pubblica in Italia”; cfr. Il Giornale del 26 ottobre 2011.
[10] Francesco Saverio Nitti (uomo politico ed economista, nonché Presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920), “Scienza delle Finanze”, Pierro, 1903, pag. 292.
[11] Era una specie di moneta cartacea costituita dalle «fedi di credito» e dalle «polizze notate», emesse dal Banco delle Due Sicilie (una istituzione pubblica seria, stimata sia all’interno che all’estero), le quali avevano una storia secolare ed erano apprezzate più dell’oro, perché interamente garantite nel loro valore nominale, che era pagabile a vista con monete-oro contanti, sia presso gli sportelli del Banco, che nelle tesorerie provinciali. Cfr. Nicola Zitara, “La gran cuccagna dei fratelli d’Italia”, periodico Due Sicilie n. 2/2004.
[12] Pino Aprile, “Terroni”, Piemme, Milano, 2010, pag. 94.
[13] Giacinto de’ Sivo, “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861”.
[14] Elena Bianchini Braglia, op.cit., pagg. 181-182.
[15] Giacinto de’ Sivo, “I Napoletani al cospetto delle Nazioni Civili”, a cura di Silvio Vitale, Il Cerchio, Rimini, 1994.
[16] Elena Bianchini Braglia, op.cit., pagg. 235-236.
[17] Gennaro De Crescenzo, “Contro Garibaldi. Appunti per demolire il mito di un nemico del Sud”, Il Giglio,  Napoli, 2006, pag. 29.
[18] Francesco Guglianetti a Luigi Carlo Farini, Torino, 7 ottobre 1860; in Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita, 1855-1864”, Sansoni, Milano, 1999, pag. 229.
[19] “La storia del debito pubblico italiano inizia nel 1861 con l’unità d’Italia”, Veya.it, 16 settembre 2011; nonché Fabio Calzavara, “Le origini della Banca d’Italia”, tratto da “Le Banche dei Fratelli d’Italia”, su: http://cronologia.leonardo.it, 18 gennaio 2008. «Nel 1849 si era costituita in Piemonte la Banca Nazionale degli Stati Sardi, di proprietà privata. Cavour, che peraltro aveva i propri interessi in quella banca, impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituto compiti di tesoreria della Stato (configurandosi, in tal modo, un gigantesco conflitto d’interesse!). Fu così che ad una banca privata (antenata della privata Banca d’Italia S.p.a.) fu conferito l’enorme potere di emettere e gestire denaro dello Stato! A quei tempi l’emissione di carta moneta avveniva solo in Piemonte».
[20] Certo, le giustificazioni non mancarono: all’epoca si addussero “motivi patriottici” e, cioè, quelli della guerra contro l’Austria; ma, se così fosse stato, perché il corso forzoso fu mantenuto fino al 1883 e, quindi, ben oltre la breve terza guerra d’indipendenza del 1866 e della stessa presa di Roma del 1870? Non mancarono ulteriori giustificazioni, quali quella che la necessità del corso forzoso derivava dalla crisi dell’industria, messa in ginocchio dalla concorrenza straniera; ma perché, allora, non si ricorse al normale sistema della tariffa doganale al posto di quello, indiretto e macchinoso, del corso forzoso? La risposta a tali domande è che il corso forzoso era stato introdotto per togliere d’impaccio la Banca Nazionale e le banche ad essa collegate che, grazie alla loro allegra finanza, si trovavano sull’orlo del fallimento: la inconvertibilità della sola moneta della Banca Nazionale permise, a questa, di continuare placidamente il suo drenaggio di capitali e di oro dal Sud, essendo rimasta invece convertibile la moneta del Banco di Napoli.
[21] Autori vari, “La storia proibita”, Controcorrente, Napoli, 2001, pagg. 103 e seguenti.
[22] Il filosofo Augusto Del Noce definì il risorgimento «una pagina dell'imperialismo inglese».
[23] Carlo Coppola, “L’insabbiamento culturale della Questione Meridionale”, cronologia.leonardo.it/storia/a1 - 2010.
 

martedì 26 maggio 2015

Continuano le papocchie del governo lucano

Ultima "ciambotta" della compagnia di merenda regionale. Seduta d'urgenza, nel primo pomeriggio, per decidere gli spostamenti dei dirigenti del "massimo ente territoriale lucano" (le virgolette hanno un loro significato). E fin qui nulla di male trattandosi di rendere efficiente la macchina organizzativa (se questa è l'ispirazione). Ma la sapete l'ultima. Mancavano due assessori, Raffaele Liberali (e anche questa non è una novità visti i rapporti che ha con Pittella) e il neo assessore Luca Braia. Prima seduta: Braia assente. E giù a dargli in testa senza sapere che Braia era all'oscuro di tutto. La macchina burocratica si è inceppata generando un vuoto nella catena di comando. Casuale o voluto? La domanda nasce spontanea? Ennesimo raid istituzionale del presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. Come, non convochi Liberali e Braia? Che poi, a dirla tutta, sono gli assessori maggiormente interessati a dare un assetto diverso ai dipartimenti e maggiormente interessati agli spostamenti dei dirigenti. Vedremo gli effetti, ma soprattutto Braia avrà gli attributi per affermare i suoi convincimenti al cospetto di sua altezza Pittella? In agguato le elezioni di Matera: quale linea interna al Pd vincerà? Intanto il reuccio di Lauria ha messo gli occhi su Avigliano e sponsorizza fortemente il suo candidato. Feudi che servono in vista di traguardi più ambiziosi e ridimensionare ambizioni politiche di Speranza, di Lacorazza e di Folino, Da tenere sott'occhio anche l'appeal di Filippo Bubbico. Uno dei migliori presidenti della Regione negli anni della seconda Repubblica. A man forte, per il reuccio, ci pensano i renziani, la stragrande maggioranza del partito. E dire che quando l'ex sindaco di Firenze e attuale presidente del consiglio dei ministri venne a Potenza, al cinema  2 Torri non ce n'era uno dei papaveri del Partito democratico. La maggior parte erano tesserati democratici ansiosi di una nuova linea di governo. Renzi avrà soddisfatto gli italiani? Le prossime elezioni del 31 maggio forniranno i primi dati, in attesa del 2018 per le elezioni parlamentari. Matera Citta' della Cultura, prossima al primo sondaggio della vera vis politica di Pittella, il banco di prova più temibile.
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